di Mariarosaria Lubes
tratto da: Iconocrazia 9/2016 – “Ritorno al conflitto” (Vol. 2), Saggi
A Berta Caceres*
Rimozione del conflitto: rivoluzione neoliberista e mutazione antropologica
Agli inizi degli anni Ottanta, quando il ciclo di grande espansione dell’economia mondiale che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra si interrompe bruscamente e la crisi economica, innescata dall’aumento del prezzo del greggio, mostra il suo carattere strutturale, -com’è noto- una radicale rivoluzione politica e di pensiero è impressa dai governi di Thatcher e Reagan oltre le due sponde dell’Atlantico. Ci si lascia alle spalle, nell’Occidente industrializzato, la fase del capitalismo ‘imbrigliato’ dalla democrazia, della limitata mobilità dei capitali, della produzione fordista regolata dagli Stati nazionali, e comincia la rivoluzione neoliberista- o, più correttamente, controrivoluzione- con le sue politiche che ridefiniscono il ruolo dello Stato, privatizzano e smantellano progressivamente i sistemi di welfare, ma soprattutto con quello che può considerarsi il suo portato più rilevante (e spesso sottaciuto) sul piano ideologico e antropologico: il primato dell’homo oeconomicus[1] e della lex mercatoria, ovvero la distruzione di tutte le regolazioni di tipo sociale e politico a vantaggio della sola regolazione di mercato. E se, intanto, nello scenario internazionale la propaganda americana teneva sveglio l’antagonismo contro il nemico esterno -il blocco comunista identificato come ‘l’impero del male’-, la nuova cultura egemone tendeva progressivamente ad inibire il conflitto sociale e politico e ad occultarlo dal dibattito pubblico. Dalla seconda metà degli anni Ottanta, il processo di ‘democratizzazione’ nei paesi del blocco sovietico culminava con il crollo del regime comunista nell’Europa orientale fino al successivo collasso della stessa URSS: era l’affermazione definitiva di un unico modello socio-economico, capitalista e democratico, che ha favorito una narrazione volta alla celebrazione di un mondo finalmente pacificato, in cui il conflitto non ha alcuna ragion d’essere perché capace di progredire nella direzione di una condizione universale di libertà, democrazia e benessere materiale.
Diversamente dal racconto retorico della pacificazione, in auge fino alla metà degli anni Novanta, il dispiegarsi del neoliberismo è da subito marchiato dalla volontà del grande capitale di restaurare il suo potere, incrinato dal compromesso keynesiano dei precedenti ‘gloriosi trent’anni’. A posteriori, la lunga fase del neoliberismo (certamente non conclusa) può essere letta, con Harvey, come un gigantesco episodio di “restaurazione del potere di classe”[2], così come il passaggio da un sistema di istituzioni politiche ed economiche di orientamento keynesiano ad un “regime economico neohayekiano” può essere inteso come l’avvento di un’epoca in cui la possibilità stessa della giustizia sociale viene negata in ossequio alla “giustizia di mercato”[3]. Attraverso un’operazione pervasiva di educazione e di ‘formattazione’[4] –che, si è detto, ha fatto del mercato l’unico orizzonte cognitivo del mondo occidentale- la controrivoluzione neoliberista da un lato ha messo in discussione lo sviluppo sociale delle democrazie post-belliche (che aveva garantito sicurezza sociale, una certa redistribuzione della ricchezza e un’ampia grammatica di diritti individuali e collettivi, grazie anche alla centralità dei partiti politici e dei sindacati), dall’altro ha sostituito in tutte le sfere della vita sociale il modello del conflitto e/o della mediazione con quello della competizione. Ci si spiega così perché la politica che per inerzia semantica definiamo ancora ‘sociale’ nella gran parte dei paesi occidentali tenda sempre più a massimizzare l’utilità della popolazione,[5] degradando il diritto del lavoro, comprimendo diritti sociali, riducendo salari e pensioni, il tutto in nome dell’adattamento alla competizione globale. Lo Stato stesso, assumendo il compito di conformare il più possibile la società ai vincoli della finanza globale e della concorrenza mondiale, guarda alle popolazioni e ai singoli individui dal doppio punto di vista della ‘risorsa umana’ da capitalizzare (cioè del potenziale contributo in termini di impiegabilità e produttività), e di ‘carico sociale’ (cioè del costo da ridurre progressivamente) nella competizione mondiale. Con l’avvento del neoliberismo si è chiusa, del resto, la fase del regime ‘inclusivo’ dell’opposizione di classe, istituito nel secondo dopoguerra, ovvero del conflitto inquadrato nei sindacati da cui procedeva negoziazione e avanzamento sociale; oggi i sindacati sono chiamati ad agire ‘di concerto’ con i governanti, e qualunque sindacato non rispetti principi meramente manageriali o non accetti immediatamente i risultati a cui la ‘concertazione’[6] deve necessariamente condurre, è subito escluso dal gioco della rappresentanza dei lavoratori.