In questo tempo estivo vi racconteremo brevi note di viaggio, incontro, vita vissuta in una città che ognuno di noi ha scelto per i più diversi motivi. Oltre le guide turistiche, dentro strade e su muri, nelle piazze e in piccoli ricordi.
di Angelo Miotto
@angelomiotto
Un parcheggio in una strada in salita, scendere a piedi e attraversare un ponticello verso destra e raggiungere Calle Manzana, in una via stretta in una fila di case che affacciano, dall’altra parte, sul fiume.
Quasi vent’anni fa arrivavo per la prima volta a Bilbao e il sapore che mi è rimasto appiccicato ancora adesso che scrivo è grigio cemento e ruggine, con il centro storico ricoperto da pintadas che inneggiavano alla lotta armata di Eta e il grande spiazzo dell’Arenal occupato fino al municipio dalle Txosnas della Semana Grande. Stand costruiti in tubolari d’acciaio che si susseguivano a perdita d’occhio con bevande e cibo e musica pompata ad alto volume. Notti di ballo selvaggio con una pinta che oscilla, i rintocchi della mezzanotte ad aprire il festival dei fuochi di artificio, la mattina che nasce con quella puzza di vino, vomito, piscio e birra e i mezzi della nettezza che sparano acqua per preparare il campo a una nuova giornata di festa. Il venerdì, scontri. Davanti al municipio, un’oretta con fumogeni e oggetti vari. Lo sapevano tutti, quasi una tradizione, poi comunque festa, anche in omaggio al vecchio adagio dei più vivaci fra i ragazzi: borroka, lotta, ma anche jaia, festa.
Quella era Bilbao travestita a festa. I suoi luoghi in un novembre freddo e piovoso, invece, dall’Arenal attraversando il ponte che collega la città vecchia con quella nuova porta in una piazza tonda, Cicular, dove c’è un caffè in cui ho gustato molte colazioni: La Granja. Ha due entrate e uscite, e per questo, vuole il racconto, era utile per chi trafficava segreti in terra basca bilbaina, perché avevi sempre una via di fuga. Dopo Plaza Circular, c’è un grande boulevard dove ricordo il suono di uno strumento a corde suonato da un signore rumeno, con una nostalgia nell’aria che faceva quasi venire le lacrime agli occhi e voglia di ignoto. Subito poco più avanti un’altra piazza con un caffè ricco di piastrelle e un bancone pronto a esaudire qualsiasi richiesta di pintxos, le tapas basche: il Café Iruña.
Passeggiare per Bilbao, saltare sui suoi vagoni metropolitani così contemporanei, seguire le manifestazioni e le persone che corrono quando iniziano gli scontri. Le scritte sui muri, la pressione e il nervosismo di fronte ai palazzi del potere, quelli che portavano fuori lo stendardo il drappo giallo e rosso spagnolo vicino all’ikurriña, la bandiera proibita per decenni. Le Cabine del telefono di metallo grigio e vetri, e la Plaza Elliptica dove finivano i cortei. Quella per alcuni anni è stata la mia Bilbao, fra un ufficio di avvocato e una sede del movimento Herri Batasuna, fra i tavolini del ristorante dietro la vecchia cattedrale, il Botxo che prendeva il nome proprio dal centro di Bilbao, la conca, fino alla Plaza del Gaz, un’enorme e ripido prato anfiteatro che punta sul fondo al palco dove si sono svolti decine di concerti.
Poi è arrivata l’altra Bilbao. Il casco Viejo piano piano ha visto scemare le scritte, la colla mista a vetro per impedire che i manifesti venissero strappati, le siete calles sono rimaste il mio luogo preferito per il poteo, il passare di bar in bar a sorseggiare un tinto o uno zurito di cerveza, due dita di birra. Ma fuori cresceva il museo al titanio e già si diceva che al calar del sole quelle grande placche di una nave del futuro si sarebbero colorate di sfumature mai viste. A guardia ci misero uno strano cane, Puppy, un enorme scultura realizzata interamente con fiori e fioriere ai suoi piedi. Un trenino leggero oggi attraversa le sponde che guardano le case di Calle Manzana e portano all’Auditorium, al Guggenheim, in una città che ha perso la ruggine, ha perso quello strato di polvere che se ne è andato insieme alla siderurgia che per decenni ha dato di che mangiare alla città. Ha perso la sua classe operaia e le tradizioni di quel ceto che si è inesorabilmente trasformato.
Infine la Gran Bilbao. Perché se dal centro prendi la metro arrivi fino al mare, inseguendo il fiume. E passi da Sestao, dove c’erano gli astilleros, i cantieri navali distrutti e smembrati, con quelle gru e metallo che svettavano e lunghe passeggiate fra capannoni e argani, vasche per lavorare chiglie, binari pronti per il varo. Tute blu e caschi bianchi e gialli e la richiesta di lavoro, che non arrivava.
La mia Bilbao è tutto questo mischiato insieme con le note di Kepa Junkera nelle orecchie, e tante notizie e incontri, racconti e sbronze salutari, quelle che scacciano i brutti pensieri, quelle che uniscono in una lingua comune in cui, meraviglia, ci si capisce perfettamente. Un luogo da vedere dall’alto, da vivere in basso e in lungo, anche oltre i binari di una guida canonica, perdendosi naso all’insù, entrando nei bar, fermandosi a un tavolino, semplicemente a guardare la gente che passa.
P.S.
Ah, alla fine sono andato a vedere il tramonto sul titanio, mi è piaciuto.