In questo tempo estivo vi racconteremo brevi note di viaggio, incontro, vita vissuta in una città che ognuno di noi ha scelto per i più diversi motivi. Oltre le guide turistiche, dentro strade e su muri, nelle piazze e in piccoli ricordi.
di Marco Todarello
Con quel nome misterioso che a molti non dice nulla, mentre a pochi evoca quella “repubblica delle banane” che non ha mai smesso di essere una colonia, Tegucigalpa è stata la mia casa per un anno, trasformandosi in una bella esperienza di vita che non ho mai dimenticato.
Non avevo mai visto la povertà, quella vera. E in un Paese – l’Honduras – troppo spesso sfruttato, maltrattato, deriso, ho trovato una mia dimensione e un’empatia speciale con la città.
Atterrai in città un giorno di settembre del 2003, con il cuore agitato per colpa della sezione “viaggiare sicuri” del sito del ministero degli Esteri italiano che mi metteva in guardia per «l’alto tasso di criminalità» con cui bisognava fare i conti. In parte era vero, tuttavia proprio quel cuore agitato, di lì a pochi mesi, si sarebbe riempito di consapevolezza e di gioia.
La mia Tegucigalpa inizia tra le tornanti di Las Lomas del Guijarro, il quartiere dell’ambasciata italiana, da dove ricchi imprenditori, politici e diplomatici guardavano la città dall’alto, trincerati in ville difese da muri altissimi e filo spinato, e finisce nel quartiere La Leona, dove ho trovato la mia casa e la mia dimensione.
Un quartiere che è un mondo a parte, arroccato su una collina sopra il centro storico, con le case in cotto e tegole intervallate da vie e scalinate in ciottoli, sui quali fino a un secolo fa i muli tornavano carichi di ferro dalle miniere sui monti intorno alla città. Questa era Tegus, come la chiamano i suoi abitanti: un centro minerario fondato dagli spagnoli nel 1578 e divenuto capitale sul finire dell’800. Oggi è una città piuttosto brutta, disordinata in una valle puntellata da collinette.
Eppure era bello tornare a casa la sera, quando gli ultimi raggi del sole dei tropici colpivano i rami degli eucalipto e dei guanacaste, e gli uccelli svolazzavano sulle panchine del parco che porta il nome del quartiere.
A volte ci si addormentava sull’amaca, sul terrazzino, sfruttando il fresco di una città sita a 900 metri, e ci si svegliava con l’immagine di una farfalla gigante appollaiata sugli intrecci di corda.
A volte sentivamo dei colpi di pistola provenire dai quartieri lontani, quelli degli scontri tra le maras: non l’avrei mai detto, ma imparammo a non averne paura.
Dal terrazzo c’era la vista su gran parte della città, le cui fioche e rare luci, di notte, la facevano assomigliare a un presepe: L’hotel Plaza, il teatro Manuel Bonilla, le case del centro storico, con la luminosità che via via diminuiva fino ai grappoli di favelas delle colline di fronte: buie e irriconoscibili, e così la luce diventava la mappa per distinguere i disperati da chi restava a malapena a galla, e questi da quell’oligarchia guidata da quattro famiglie che da sempre si dividono il Paese.
La mia Tegucigalpa sono i bambini della calle, divisi tra quelli che lucidano le scarpe di giorno, nei giardini del Parque Central, e quelli che inalano la colla di notte, detti niños del Resistol, con cui a volte mi fermavo a chiacchierare e spesso non riuscivano a mettere in fila due parole.
O i taxi sgangherati, con un parabrezza attaccato col fil di ferro e la salsa a tutto volume. La musica si mescolava all’assordante sinfonia di clacson, e alla fine si imparava che quello strombazzare per i tassisti era una lingua, utile anche ai pedoni per attraversare la strada senza finire schiacciati.
O gli autobus gialli anni ’60 ereditati dagli Stati Uniti, lentissimi, carichi di umanità e guidati a fatica da autisti eroi. L’intreccio caotico dei cavi della corrente elettrica, un maiale che attraversa la strada, i venditori ambulanti di tortillas e formaggio agli angoli di quelle strade senza nome.
La mia Tegucigalpa sono gli uffici della ong Mujeres en las artes, dove ho visto tutto il bene di cui sono capaci gli onduregni, persone che non mi facevano mai mancare un sorriso, un aiuto, la condivisione di una curiosità o di una buona notizia. E ancora la Biblioteca Nacional, con i suoi libri e il suo meraviglioso patio, perfetto per la siesta.
Lungo il boulevard Francisco Morazán, una strada larga, dritta e assolata disseminata di Pizza Hut, Mc Donald’s e Burger King si poteva imparare in mezz’ora come avevano fatto gli Stati Uniti a colonizzare un intero Paese: infrastrutture, brand e cibo a basso costo in cambio di una schiavitù commerciale, politica e identitaria. Se non passi un pomeriggio sul boulevard Morazán, mi sono detto allora, non puoi capire bene la storia della United Fruit Company e forse nemmeno la dottrina Monroe.
Per fortuna a Tegus c’è chi ha resistito, come ad esempio Tito Aguacate, uno dei luoghi in cui ho lasciato il cuore. È un baretto in un antico edificio del centro storico, così chiamato dal nome del fondatore, Tito, che usava offrire dei pezzi di avocado per accompagnare la bevuta dei clienti. Avocado ma anche tortillas, formaggio e i jineles, le ghiotte uova di tartaruga marina da mandare giù con un po’ di peperoncino.
Esplodeva di vitalità, Tito Aguacate, che dal tardo pomeriggio cominciava a riempirsi di operai, studenti, scrittori, musicisti, nonché i proprietari di altri bar che si ritrovavano lì dopo aver chiuso il loro. Al centro delle chiacchiere solo qualche volta c’era il calcio, con le vicende di Olimpia e Motagua, le storiche squadre cittadine. Da Tito ho imparato piuttosto a conoscere il cuore della cultura onduregna, commentando i giornali insieme ai presenti e ascoltando le tante storie di chi passava da là.
Su quella sbarra sbilenca non mancava mai una birra o un calambre, il celebre cocktail inventato da Fernando, uno dei figli di Tito, a base di vino rosso, gin, succo di limone, zucchero di canna e ghiaccio. A chiudere le serate, con chitarra in mano e tanta energia, spesso arrivava Jerónimo, un ex senzatetto diventato cantautore.
La mia Tegucigalpa sono i temporali a tempo della stagione delle piogge, con la prima e l’ultima goccia sempre alla stessa ora, o il caldo afoso e appicicaticcio di aprile, e un soffione della doccia a secco in cui torna l’acqua solo dopo il temporale.
Doña Nancy che suona alla porta il lunedì mattina presto per vendermi i fiori più belli e più freschi appena raccolti, i locali carne arrosto e birra con la musica mariachi sparata ad alto volume, gli altri locali dove mi sono innamorato della salsa e dove nascevano anche altri amori.
Una famiglia della Colonia La Rosa, uno dei quartieri più poveri della capitale, che mi ha messo a disposizione una sedia di plastica, l’unica sedia, per farmi sentire a mio agio.
La mia Tegucigalpa è Allan McDonald, brillante vignettista del quotidiano El Heraldo, che era tra i sequestrati dopo il golpe infame del 2009. Ho avuto la fortuna di conoscerlo: irriverente, ironico dispensatore di sarcasmo, mai allineato in un Paese in cui tanti, troppi, non muovono un passo senza il benestare del gruppo di potere cui appartengono. McDonald, con quel cognome su cui non si è mai fatto mancare l’autoironia – lui, così ostile ai gringos – non le hai mai mandate a dire e per questo i golpisti lo temevano. Dopo tre giorni, per fortuna, è stato liberato. Ricordo ancora il sollievo di quella nostra telefonata.
La mia Tegucigalpa è Guillermo Anderson, cantautore recentemente scomparso, che meglio di ogni altro ha saputo raccontare il suo Paese con un pop latino che abbracciava il reggae, le melodie caraibiche e i ritmi afro della musica garifuna, la popolazione nera della costa atlantica.
Nei suoi pezzi Anderson è un partigiano della difesa dell’ambiente, della pace, delle tradizioni locali e delle bellezze dell’Honduras. In questo pezzo, racconta con ironia le avventure di una madre onduregna decisa a inviare al figlio emigrato negli Usa un pacco con introvabili prelibatezze locali.
Ho voluto davvero bene al popolo catracho.
Un altro cantautore, lo spagnolo Joaquín Sabina, canta «al lugar donde has sido feliz no debieras tratar de volver» (nel luogo in cui sei stato felice, non dovresti provare a tornare).
A Tegucigalpa ci sono rimasto un anno. Era il 2004. Non sono mai tornato.