Storie da Ventimiglia
di Alessandra Governa
“Ma se piove, come fanno?”
E. ha diciannove anni, un affitto già pagato a Bologna per iniziare la facoltà di antropologia e la consapevolezza che i soldi di quell’affitto li ha buttati, almeno per settembre, perché rimarrà ancora a Ventimiglia.
I suoi compagni le consigliano di tagliarsi la lunga treccia troppo connotabile e la prendono in giro per il marcato accento bergamasco che lei pensa di non avere. O, almeno, non così tanto.
E. è preoccupata dell’impatto del previsto peggioramento del meteo sul ponente ligure sulla sistemazione dei migranti che non sono ospitati o all’interno del campo della Croce Rossa o alla Parrocchia di Sant’Antonio. Siamo sedute al parco e monitoriamo la presenza di migranti cercando di capire se abbiano bisogno di informazioni o altro tipo di supporto.
Qualche ora prima, E. e i suoi compagni hanno incontrato un ragazzino afghano e la versione dell’adulto che era con lui non li ha convinti per niente. Avrebbero voluto avere quelle competenze linguistiche e quella confidenza necessaria per riuscire a convincerlo a farsi ospitare alla Parrocchia.
Ma l’urdu è ostico, almeno quanto un minore che presumibilmente è partito da solo dall’altra parte del mondo.
Fortunatamente non pioverà, né la notte né i giorni successivi. E fortunatamente al campo della CRI sono aumentati i moduli abitativi e sono comparse le tende da campo così che nessun migrante sarà più costretto a dormire su una brandina sotto il cavalcavia.
In tre settimane ho conosciuto tanti volontari e operatori impegnati con dedizione nelle varie fasi dell’accoglienza qui al confine, ma mi mancava una come E., con la verve e lo sguardo ancora limpido sul mondo.
E., come gli altri componenti del gruppo quasi tutti lombardi che incontro in questo scorcio finale di permanenza al confine, fa parte del progetto 20K, “gruppo di donne e uomini che credono nel diritto alla libera circolazione per ogni essere umano, nella responsabilità di tutte e tutti nell’essere soggetti attivi perché questo diritto possa essere garantito e la sua conquista supportata”.
Il come fare, in questi giorni, è semplice: preparando quotidianamente cibo da consegnare ai migranti in transito per la città.
La distribuzione di cibo è però vietata da più di una settimana da un’ordinanza del sindaco, ordinanza che di per sé non è più una notizia (un provvedimento analogo era già stato preso l’anno scorso) ma che ai 20k e non solo (altri cittadini, privati o organizzati, italiani e non) proprio non va giù.
“Non è giusto che io abbia paura della polizia se dò da mangiare. Non faccio niente di male. Certo, è vero, anche che un foglio di via non serve a nessuno.”
La preparazione del cibo occupa buona parte della giornata. Una volta pronto, viene suddiviso in vaschette di alluminio dotate di forchetta e poi consegnato ai migranti incontrati per strada o nei ritrovi informali.
“Cuciniamo perché è più sostanzioso. I ragazzi così mangiano prima di partire, nel caso vogliano provare a passare il confine” rispondono in coro le ragazze che ho accompagnato nel giro distributivo in macchina. Due davanti e tre dietro, borse frigo anonime per conservare le vaschette e per renderle invisibili fino all’ultimo.
Non panini o scatolame anche se sicuramente più comodi, veloci o meno ingombranti. “Così almeno un pasto lo fa anche chi è appena arrivato e vuole ridurre al minimo la permanenza in città.”
Oggi abbiamo riso e ceci. In macchina l’odore si spande nonostante i finestrini aperti.
La distribuzione è per forza veloce, meno si dà nell’occhio meno si mette in difficoltà il progetto e soprattutto il migrante. Veloce sì, ma non anonima.
“Dare il cibo è un modo per parlare almeno un minuto con chi lo riceve. È dirgli che non è solo.” È anche un modo per provare a raccogliere qualche informazione di base: provenienza, età, destinazione.
La lingua è un ostacolo anche se nel gruppo c’è chi parla arabo perché tanti dei migranti parlano solo tigrino o amarico. Ma il gesto, se ripagato con un sorriso, come ci è capitato questa sera, vale più di mille parole. E di mille paure. Non facciamo nulla di male.
In effetti, se penso alla dedizione con cui si preparano i pasti all’interno della Parrocchia di Sant’Antonio, alla collaborazione fatta necessariamente di gesti mimati (tagliare, lavare, mescolare, scolare) che si è instaurata tra il cuoco e le ragazze che a turno lo aiutano, al gusto di mangiare insieme, in una tavolata unica; se penso alla generosità delle persone nel donare cibo utile per i pasti, al tempo dedicato dai volontari e all’attenzione a soddisfare anche in cucina le culture di appartenenza differenti, ecco faccio fatica a pensare che ci siano un luogo e un modo di dare cibo che siano vietati. E non mi riferisco al rischio (possibile ma non probabile) di un’intossicazione alimentare o a un problema di igiene e sicurezza pubblica, quanto all’uso collettivo di buon senso (civico).
Si illuminano gli occhi di E. e delle altre solidali quando mi raccontano anche della colazione.
“Ieri abbiamo distribuito pane e marmellata. Non è bello svegliarsi e vedere che qualcuno ti ha preparato qualcosa, che ha pensato a te?” Non fa una piega, anche se normalmente il pane e marmellata sono sostituiti da un più pratico sacchetto con biscotti e succo di frutta.
Il “problema” è che i migranti stanno calando di numero. Il piano di alleggerimento della pressione su Ventimiglia annunciato dal Capo della polizia Gabrielli sta probabilmente cominciando a dare i suoi frutti. Pochissime le persone che si incontrano per strada.
Alle già tante persone fermate dalla géndarmerie francese in procinto di oltrepassare la frontiera (sia alta sia bassa) o alla stazione di Mentone, si aggiungono i migranti fermati direttamente sui binari o nel sottopasso della stazione appena giunti in città. Il dubbio è che – vedendo le prassi consolidate in altre zone d’Italia – oltre ai respingimenti, ai fermi e ai rastrellamenti in città, si siano intensificati e induriti anche i controlli nelle stazioni di partenza o di transito intermedio.
Il progetto 20k è bello perché è pratico, ha un inizio, una fine almeno teorica (almeno dichiarata alla pagina facebook) e una comunità alle spalle che raccoglie, sostiene, informa, finanzia. Una comunità eterogena, appunto, in cui le appartenenze non sono il filtro attraverso cui collaborare o meno. O almeno non sono l’unico filtro.
“Si perdono tante risorse a non collaborare. Risorse di tempo, soldi, competenze. Tutti potremmo fare il nostro pezzetto.” Non quindi contro, ma con il territorio e i suoi attori. Un po’ complicato per chi viene comunque etichettato come antagonista e socialmente pericoloso.
“Ma voi, come fate a reggere tutto questo schifo?”
È sempre E. che parla e si rivolge alle sue due compagne. B. guida, nella vita vuole costruire ospedali nel sud del mondo (insomma, non una qualunque), M. è la “grande” del gruppo, visione politica lucida e modi a metà tra mamma – amica e leader autorevole. Quando parla di Gaza si emoziona, quando vede un’ape si agita.
È domenica mattina, stiamo salendo verso la frontiera alta, destinazione il bar vicino a una caserma già in territorio francese. Quattro amiche in vacanze che a furia caffè e bicchieri di acqua vedono sfilarsi davanti un numero imprecisato di camionette e macchine di carabinieri, polizia e guardia di finanza a protezione di un pullman di Riviera Trasporti pieno per metà di forze dell’ordine e per metà di migranti.
“Nemmeno fossero assassini”. I migranti sono seduti nella parte in fondo del pullman, su sedili ricoperti di sacchi di plastica.
Guardiamo incredule. Parlare di deportazioni se non le vedi, se non scorgi gli sguardi persi da dietro un vetro in movimento, è inutile.
Rimaniamo con l’amaro in bocca davanti al bellissimo panorama di Mentone che ci si stende davanti. Rimaniamo con l’amaro in bocca perché per quante foto o telefonate possiamo fare, questa cosa non la fermiamo e non la cambiamo. Il pullman e la sua scorta arriveranno presumibilmente all’aeroporto di Genova. Da lì le destinazioni più gettonate sono la Sardegna e Taranto. Mete lontano dal confine. Per alleggerire.
Come fate a reggere tutto questo schifo? Non ho mentito, quando dicevo che non si impara, anche se si sa che non tutto dipende da noi. Anche se si sa che tra il salvare il mondo e il cinismo e l’indifferenza c’è un abisso. Si sa, ma non ci si abitua mai.