Come può reagire l’arte alla grave crisi politica in cui versa la Turchia? Un’intervista a Semih Çelenk, docente di teatro presso l’università Dokuz Eylül di Izmir
Emre Yalçın*, tratto da Osservatorio Balcani Caucaso
(Pubblicato originariamente su Altrevelocità e parte di una serie di rassegne sul teatro nei paesi dell’est Europa)
In Turchia da un po’ di tempo regna un caos che sembra ben in là dal finire. La rivolta di Gezi Park, le bombe, leggi oppressive ed epurazioni da parte del governo, una vera e propria guerra che si sta sviluppando nell’est del paese, l’attività terroristica del gruppo FETO e infine il tentativo di colpo militare con la conseguente dichiarazione di uno stato d’emergenza. Che ne pensa di questo caos?
Leggo gli ultimi eventi come parte di un “caos” più generale a livello mondiale, che è iniziato durante gli anni ’40. Le situazioni caotiche, il timore che da queste si genera e le misure oppressive che si propongono per porvi rimedio sono gli elementi caratteristici di un modello di autorità che si sta ripetendo più volte nella storia.
Si crea sempre la percezione di una minaccia e di un “nemico” esterni: la sensazione costante di un pericolo ambiguo e onnipresente rende più facile governare in modo autoritario e oppressivo, in nome della stabilità e dell’uscita caos. Si riesce cioè a imporre senza troppa resistenza uno stato di emergenza come quello attuale, assieme ai provvedimenti repressivi che lo accompagnano, e tali dinamiche si riproducono seguendo più o meno sempre le stesse linee di sviluppo in tutto il mondo.
Possiamo dire però che il nostro paese ha una posizione “speciale” dal punto di visto geopolitico?
Ho ormai 50 anni e la mia impressione è che fin da quando ne avevo 15 regni un caos che non si è mai interrotto. Operazioni militari, conflitti armati, terrorismo etnico e religioso, c’è sempre stata una minaccia. Ogni qual volta da una parte si riesce a compiere dei passi avanti in termini di libertà ed emancipazione, dall’altra la minaccia si intensifica e “prende in ostaggio” la nostra vita quotidiana e i nostri desideri.
Si è sempre posti di fronte a un dilemma: sicurezza o libertà? È chiaro che si propende sempre per il primo polo. Quindi, ribadisco, anche quello che stiamo vivendo oggi è parte di dinamiche globali e frutto di quella ragione neoliberista che oramai dirige il mondo, pervadendo ogni contesto. Se guardiamo a come circolano le armi o alle politiche che tendono a dividere le popolazioni, è chiaro che i governi siano profondamente implicati nelle attività terroristiche: chi si lamenta del terrorismo è generalmente anche chi lo aiuta a crescere.
Detto questo, è vero che la Turchia ha avuto un suo peculiare sviluppo storico dovuto alla sua posizione geopolitica e che questo rende forse più alta la possibilità che qui i conflitti esplodano in maniera più violenta che altrove.
La notte del 15 luglio si è svolto un tentativo di colpo militare, un evento certamente molto significativo. Come lo commenti? Subito si sono formate interpretazioni diverse fra loro e risulta difficile capire quali siano effettivamente credibili…
È vero: esistono dei fatti molto chiari ma risulta difficile capire le dinamiche che si nascondono dietro di essi, che verosimilmente resteranno chiare solo a chi ha diretto gli eventi. Ciò che è opportuno rilevare è come, attraverso il tentativo del colpo militare, la popolazione sia arrivata a un compromesso. L’opposizione a Erdogan ha giocato un ruolo fondamentale: ha risposto in maniera coesa contro il golpe ma allo stesso tempo si è detta fermamente contraria all’imposizione di un regime totalitario come soluzione politica.
Per questo, è possibile sperare che i provvedimenti molto rigidi già adottati per i golpisti e i loro sostenitori non vadano a toccare la gente comune, generando una spirale di ingiustizia e ineguaglianza. Eventi di questo tipo in una democrazia civile dove la gente ha diritto di parola potrebbero portare a risultati utili per tutti, se ci si muove insieme per proteggere i valori comuni della nostra convivenza e se si riesce a creare coesione attorno all’aspetto laico e democratico.
Si possono osservare segnali in tal senso ma, d’altra parte, è chiaro che le condizioni per una svolta autoritaria e per uno scenario ben peggiore di quello attuale sussistono. In un lasso di tempo così breve è difficile capire cosa si nasconda dietro all’apparenza e perciò è più difficile arrivare a opinioni certe e fisse riguardo ai risultati e alle cause. Forse, è più utile provare a concentrarci sul trauma generato dal tentativo di golpe: le centinaia di morti e le migliaia di feriti, la sensazione di paura e perturbamento che avvolge la nostra vita quotidiana…
Come si riflette questo caos nel mondo teatrale? Ogni giorno si susseguono arresti e licenziamenti di affiliati a FETO… Pensi che un processo simile possa diventare una caccia alle streghe che coinvolga anche i teatri di sinistra o gli oppositori di diversa opinione politica, al solo scopo di rinforzare l’autorità dell’AKP?
Nelle società come quella del nostro paese dove la polarizzazione politica è molto forte, dove ci sono nemici e conflitti interni, periodi come questo possono facilmente creare un’atmosfera scura, in cui la ricerca di un colpevole si generalizza e si trasforma in una caccia alle streghe. Si pensa cioè di poter risolvere il problema senza andare in profondità, con procedimenti sbrigativi che rischiano di creare ulteriori conflitti e di reprimere qualsiasi tipo di opposizione.
Anche durante gli altri colpi militari avvenuti nel nostro paese (come il 12 marzo 1960 o il 12 settembre 1980) o nei periodi caotici sono stati sempre generati meccanismi di grande oppressione sull’opposizione intellettuale e artistica. Spero che abbiamo imparato qualcosa dalle vecchie esperienze: questi tipi di interventi sommari non fanno guadagnare niente al nostro paese e portano solo dolore e vittimismo. Il problema deve essere allora capire come scongiurare pericoli di questo tipo, che purtroppo sono costanti e regolari.
In effetti, già esisteva una tensione continua fra i teatranti e il governo prima che esplodesse una crisi politica così forte come quella attuale…
Secondo me l’obiettivo più importante per gli uomini di teatro del nostro paese è riuscire a ottenere una propria istituzionalizzazione e, pertanto, una propria continuità. L’arte teatrale prima di tutto deve avere degli artisti che creano principalmente per il teatro e con il teatro. Non è mai esistita – e probabilmente non esisterà mai – una zona di libertà assoluta, una zona franca nella relazione fra il teatro e gli avvenimenti sociali. Guardando anche solo al passato più prossimo, possiamo vedere che il teatro si è fatto anche nei campi di concentramento, nelle prigioni o nelle fogne… il teatro come un mezzo di espressione e come mezzo per raccontare e far capire se stessi si potrà sempre produrre.
Ciò che conta allora è che tale caratteristica, tale potenziale “onnipresenza” del teatro, venga protetta e portata avanti dagli artisti stessi. Quando guardiamo alla Turchia, notiamo come tale caratteristica non sia mai diventata un’abitudine, non è mai esistita al 100 per cento: il teatro infatti non rappresenta nel nostro paese una necessità sociale bensì un extra, una specie di “lusso”. A differenza dell’occidente, dove mi pare grazie alla tradizione il teatro occupi un ruolo maggiormente centrale, non c’è in Turchia una forte domanda da parte della società che faccia percepire il teatro come una necessità pubblica. Occorre da parte nostra fare qualcosa in tal senso, anche perché la Turchia è una paese che ha una cultura e un’attitudine alla spettatorialità molto radicate. E, paradossalmente, una situazione caotica come quella che sta vivendo ora la nostra società rappresenta un’occasione di crescita: il teatro potrebbe costituire una sorta di “ancora di salvezza”.
È chiaro che lo spettatore quando si trova in una situazione di difficoltà ad esprimersi si rivolga e ricerchi mezzi di espressione alternativi a quelli quotidiani. Il teatro, così come anche altre arti, potrebbe allora essere la risposta a tale bisogno e fornire proposte interessanti e inedite. Certo, esiste sempre il pericolo che il governo pieghi a proprio totale vantaggio il mondo teatrale e artistico ma proprio per questo la nostra capacità e volontà d’azione non deve essere oggi sospesa, bensì intensificata. Nel caos odierno possiamo muoverci e provare a capire quale sia il nostro potere sociale, artistico e istituzionale.
Stai suggerendo che il teatro dovrebbe ritrovare in qualche modo una propria identità collettiva? È possibile far corrispondere a tale identità di natura artistica una visione più ampia di stampo politico e filosofico? Penso al teatro fortemente implicato nella società e ideologia che è esistito in Turchia durante gli anni 60 e 70…
A ben vedere una matrice “politica” è esistita nel teatro turco tradizionale. Nel nostro teatro di ombre c’era una forte vena critica umoristica, che stravolgeva fatti sociali e politici trasformandoli in satira. Si trattava comunque di un’attitudine non radicale, sempre attenta a non oltrepassare un certo limite per essere tollerata dal potere. Con gli anni ’60 però, grazie alla conoscenza soprattutto di Brecht e Piscator, alla crescita della classe operaia e all’accelerazione mondiale del socialismo nonché alla contestazione studentesca con i movimenti libertari che ne sono derivati, è stato possibile fornire alle proprie idee teatrali una valenza politica molto più pregnante e feconda.
Da questo punto di vista, il teatro turco si è installato nel medesimo solco di quello europeo e si è rivoluzionato: sono cambiate le attitudini rispetto alla sceneggiatura e alla regia, si sono modificate le “maschere” tradizionali della scena… il tutto certo non rifiutando totalmente il passato, bensì realizzando una sintesi fra esso e le nuove influenze occidentali, sintesi da cui deriva sostanzialmente il nostro teatro politico. Tuttavia, tale caratteristica è stata dominante durante gli anni ’60, ’70 e per una prima degli anni ’80 dopodiché si è indebolita e oggi il teatro non rappresenta più un mezzo di lotta.
Per concludere, come collocherebbe il teatro turco a livello internazionale? Ci puoi fare un riassunto della situazione attuale?
Come dicevo in precedenza, il popolo turco ha una forte inclinazione alla spettatorialità. Tuttavia tale attitudine alla visione ha assunto caratteristiche sempre più “occidentali” e solo parte del popolo è riuscita ad adeguarsi a questo processo, col risultato che la tradizionale massa di spettatori che seguiva il teatro è andata assottigliandosi, diventando un’élite. Oggi solo un gruppo moderno ed educato come quello degli studenti, degli insegnanti universitari e dei dipendenti pubblici va a teatro in una modalità “occidentale”. Il resto della società (impiegati, casalinghe, artigiani, studenti medi e superiori…) non ha una predisposizione simile e, d’altra parte, non si sviluppa un teatro popolare che a esso si rivolga. Per esempio, è difficile vedere uno studente di liceo andare ad assistere a un’opera recitata da giovani attori non professionisti oppure una casalinga andare a uno spettacolo organizzato nel suo quartiere.
Credo che rispetto all’Europa, il nostro teatro possa vantare un pubblico più esiguo e questa è innanzitutto una conseguenza storica: la modernizzazione turca messa in atto con la fondazione della Repubblica non ha reso il teatro un fenomeno di intrattenimento o educazione o di cultura maggioritario nella società. Credo che il vero nodo stia qui. Se il pubblico fosse più ampio, oggi parleremmo di un teatro molto diverso. Certo gli stili e le forme si sono modificate, ma ancora manca molto dinamismo che può crearsi solo nell’incontro con un bacino di spettatori più ampio. Quindi, a causa dei problemi economici relativi alla mancanza di spettatori, i talenti più innovativi nella regia, nella sceneggiatura o nella scenografia si allontano dal teatro perché difficilmente potranno trovare un profitto sufficiente nel nostro settore, andando così a ingrossare le fila dei professionisti delle serie televisive o della pubblicità.
Vero che tale problema non riguarda solamente il nostro teatro. Il teatro oggi è logorato dal cinema, dalla televisione e da internet, da tutti quei canali che dominano la comunicazione odierna. Però, d’altra parte, il teatro è un’arte arcaica con delle radici molto solide che gli permettono di rifondarsi e riprodursi costantemente.
Forse il punto più importante è provare a gestire il teatro con tutti i problemi di cui abbiamo parlato, compresi quelli che riguardano le organizzazioni statali, gli artisti, gli intellettuali e i cittadini con una mentalità libertaria e imparare a percepirlo come una fonte di energia, di pace sociale e di sviluppo culturale.
Nota aggiuntiva
Due giorni dopo questa conversazione, sei personalità legate al mondo del teatro – di sinistra o comunque oppositori del partito AKP – sono state sospese dai loro incarichi presso l’Istanbul City Theater. In seguito Candam Badem, professore alla Tunceli University che si è sempre dichiarato marxista e ateo, è stato trattenuto dalle autorità e successivamente rilasciato in libertà vigilata. Citiamo questi episodi poiché evidenziano la possibilità che la “caccia alla streghe” di cui si parla nell’intervista sia stata messa in moto. Condanniamo pertanto la sospensione e l’ingiusta detenzione dei nostri colleghi!
* Emre Yalçın è regista della compagnia teatrale “Beyoglu Kumpanya” e assistente presso l’università Dokuz Eylül di Izmir