Cosa è successo la notte tra il 25 e il 26 ottobre a Sivens (Tarn), quando è morto Rémi Fraisse? Alla luce dell’istruttoria e delle tante testimonianze, la rivista francese Reporterre rivela una nuova versione dei fatti, che contraddice quella ufficiale. Quella notte era presente una squadra fantasma di gendarmi. E il suo unico obiettivo non era quello di difendere la zona.
La traduzione dell’inchiesta in esclusiva su Q Code Magazine. Grazie a Valeria Nicoletti.
di Grégoire Souchay et Marine Vlahovic (Reporterre)
La morte del giovane ambientalista a Sivens, nell’ottobre del 2014, è il risultato di una serie di azioni completamente diverse da quelle attestate nella versione ufficiale dei fatti. E nelle prime settimane dell’inchiesta, la gendarmeria ha escogitato colpi bassi e pressioni sui testimoni per cercare di nascondere la verità. Ecco come.
Cos’è successo la notte tra il 25 e il 26 ottobre 2014, a Sivens (Tarn), quando è morto Rémi Fraisse? Alla luce dell’istruttoria e delle tante testimonianze, Reporterre ce lo racconta nella prima parte della sua inchiesta, svelando l’esistenza di una squadra fantasma di gendarmi che ha agito durante la notte. E il suo unico obiettivo non era quello di difendere il cantiere. E dopo? Qui il seguito dell’inchiesta, tradotto in esclusiva da Q Code Magazine.
All’indomani della morte di Rémi Fraisse, avvenuta nella notte tra sabato 25 ottobre 2014 e domenica 26, cominciano le incongruenze: per circa una settimana, le autorità tenteranno di minimizzare l’accaduto e instillare il dubbio. Lo scopo: ridurre la responsabilità dei gendarmi mobili impiegati a Sivens la notte della tragedia.
Innanzitutto con la pubblicazione, alle 10:30 di domenica mattina, di un comunicato a dir poco laconico della prefettura della regione Tarn: “Verso le 2 del mattino, il corpo di un uomo è stato scoperto dai gendarmi sul sito di Sivens”. Tuttavia, la prima autopsia realizzata nelle prime ore della mattinata del 26 ottobre, rivela subito la possibilità di un decesso causato dall’esplosione di una granata offensiva. I media hanno gli occhi puntati sul Tarn. Non è più possibile soffocare la faccenda: dal lunedì seguente, Reporterre scrive come Rémi Fraisse sia morto a causa dell’azione di un gendarme. Le manovre delle autorità iniziano allora a insinuarsi nell’inchiesta per tentare di orientarla a proprio piacimento.
Una granata smarrita e uno zaino introvabile
Una granata offensiva “smarrita” dai gendarmi mobili a Sivens fa la comparsa nel dossier. Una perdita segnalata ai piani alti, secondo l’inchiesta alla quale Reporterre ha avuto accesso. Le munizioni utilizzate dalle forze dell’ordine sono meticolosamente contate nel corso delle loro operazioni, ma quelle perdute sono segnalate raramente, in virtù del rischio di incorrere nelle sanzioni. Quello che sembra strano è la cronologia dello smarrimento di questa granata.
Per comprendere meglio, bisogna sapere che prima dell’entrata in azione dello squadrone La Réole, a mezzanotte, altre unità di gendarmeria mobile sono state impiegate sul sito di Sivens sabato tra le 16:55 e mezzanotte, in seguito rilevate da La Réole. Il comandante L. appartenente allo squadrone di Châteauroux, abbandona il cantiere a mezzanotte. Si rende conto solo domenica 26 ottobre, nel pomeriggio, che gli manca una granata OF-F1. Allerta subito il suo superiore, che riferisce il fatto alle autorità. Interrogato due giorni dopo per l’inchiesta, il comandante L. assicura agli investigatori che al momento della rotazione dei turni di guardia, sabato sera, pensava di essere in possesso della totalità del suo arsenale. Per lui, non c’è alcun dubbio: la granata è sparita “al momento della partenza dal sito di Sivens, tra i prefabbricati degli operai e la zona esterna o ancora lungo il cammino in direzione della casa forestiera”, tutte aree dove ai manifestanti era stato proibito l’accesso.
L’allerta della perdita della granata arriva solo domenica pomeriggio. Proprio nel momento in cui non c’è più alcun dubbio che Rémi Fraisse sia stato ucciso da una granata offensiva di tipo OF-F1.
“Far sparire materiale per proteggersi è una pratica molto diffusa”, sostiene una fonte della polizia che ha potuto leggere il dossier. “Vista la quantità di munizioni utilizzate dai gendarmi durante quel fine settimana, non erano obbligati a segnalare la perdita, soprattutto 24 ore dopo”. Si può ipotizzare che i gendarmi abbiano cercato di creare una via di fuga mettendo da parte una prova materiale, allo scopo di suggerire forse che il ragazzo sarebbe stato ucciso da una granata recuperata da lui stesso o trovata dai manifestanti.
All’indomani della morte di Rémi Fraisse, lunedì 27 ottobre, entra in scena il suo zaino. Nel tardo pomeriggio, alla prefettura della regione Tarn, il piccolo ufficio di Claude Dérens, procuratore della Repubblica, è invaso dai giornalisti.
“La ferita più importante, situata in alto sulla schiena di Rémi Fraisse, è stata causata secondo ogni evidenza da una esplosione”, dichiara, precisando che “niente ci consente di affermare che una granata lanciata dalla zona dove si trovavano i gendarmi possa essere all’origine di questa esplosione”.
Martedì 28, il procuratore si reca sul sito di Sivens, dove assicura, davanti alla stampa, che i manifestanti “sono ancora in possesso dello zaino, ma speriamo che lo consegneranno agli investigatori”. Qualche brandello è stato ritrovato sul luogo del dramma ma, secondo i media, l’oggetto non è stato ritrovato. E c’è una causa: l’esplosione ha in parte distrutto lo zaino di Rémi. La parte dello zaino ancora intatta è stata recuperata dai gendarmi insieme al corpo. È uno dei primi oggetti che compaiono nel dossier.
Il dubbio però è stato insinuato e giornalisti e gendarmi si chiedono se lo zaino di Rémi contenesse prodotti esplosivi. Il 31 ottobre, tuttavia, le analisi presenti nel dossier confermano “un’esplosione dovuta al TNT”, componente delle granate offensive dei militari. Nessun altro elemento chimico è stato scoperto. Assistiamo quindi al fallimento di una doppia bugia: no, i manifestanti non avevano recuperato lo zaino e no, lo zaino non conteneva esplosivi come, per esempio, un cocktail Molotov.
Inoltre, tali cocktail Molotov, abbondantemente menzionati dai gendarmi durante l’inchiesta, sono pressoché inesistenti la sera del dramma. Nel pomeriggio, come è stato filmato, due di questi esplosivi sono stati lanciati sulle forze dell’ordine, ma durante la notte, raccontano i gendarmi, “non siamo stati toccati dagli esplosivi, sono caduti davanti a noi […] sono stati lanciati da troppo lontano per poterci toccare”.
A Rodez: storie di ordinaria follia
Intanto, strane voci iniziano a diffondersi nelle caserme del Sud-Ovest francese: la famiglia di Rémi avrebbe tentato di attaccare una gendarmeria per vendicarsi. Una menzogna, ovviamente, ma un elemento in più nella battaglia di comunicazione condotta dal corpo militare. All’origine: una storia strana. Accaduta lunedì 27 ottobre, in serata, a Rodez, nell’Aveyron, dipartimento vicino al Tarn. Quella sera, due uomini si presentano intorno alle 20 davanti alla gendarmeria del dipartimento per “riportare, secondo loro, delle precisioni riguardanti ‘il crimine di Sivens’”, indica una testimonianza verbale degli investigatori.
Parcheggiati davanti alla caserma, “sono in trepidazione e si spazientiscono”. Danno i propri nomi all’interfono, aspettando che venga aperta la porta. Ma il portiere non fa in tempo a farli entrare, sono già ripartiti senza spiegazioni. Rapidamente, grazie alla targa filmata dalla telecamera di videosorveglianza, i gendarmi di Rodez identificano la vettura: appartiene a una certa Clotilde Fraisse.
I gendarmi incaricati di investigare sulla morte di Rémi hanno verificato i dati del cellulare del ragazzo e non hanno trovato nulla di particolare. Solo chiamate e messaggi da parte dei suoi amici e della sua famiglia. E da parte di una certa “Clo”. Un nome fonte di confusione: sua sorella di chiama Chloé. Ora, la vettura rubata appartiene a una quasi omonima, Clotilde Fraisse, residente a Rodez.
Secondo Clotilde, raggiunta dai giornalisti di Reporterre, “si tratta di una coincidenza”. Non ha alcuna relazione di parentela con Rémi Fraisse e si stupisce del furto della sua auto: “è una vecchia Honda del 1997, non interesserebbe a nessuno”. Due gendarmi di Rodez arrivano a casa sua la mattina del 28 ottobre per informarla che la sua auto è stata rubata e… ritrovata. Al commissariato di polizia, Clotilde è interrogata sui suoi rapporti con la famiglia di Rémi. “Nessuno”, risponde. Sorpresa totale per l’ufficiale giudiziario, che trova la situazione “insolita”. Dopo tre ore di interrogatorio e su consiglio della polizia, Clotilde sporge denuncia tre giorni dopo. Solo che, sul verbale della denuncia, datata al 31 ottobre, c’è solo un nome. Tuttavia, tre giorni prima, sono due le persone a essere viste davanti alla caserma di Rodez.
Il primo di questi due individui si fa chiamare Nathanaël. È stato fermato “il 28 ottobre, a bordo del veicolo rubato”. Il secondo, che ha detto ai gendarmi di chiamarsi Jérémy, è arrestato un giorno dopo a Rodez. Su di lui, non si sa niente, o quasi. In una lettera agli investigatori, il vice comandante della gendarmeria di Rodez sottolinea: “Dopo una verifica, queste due persone presentano evidenti problemi comportamentali e gli elementi che dicevano di avere in possesso non corrispondono a niente di concreto. Non hanno alcun legame con le vicende di Sivens”.
Abbiamo incontrato questo “Nathanaël”. Ha 42 anni e presenta evidenti turbe psichiche, ma ci assicura di “aver conosciuto Jérémy a Sivens ed essere partito dal sito in sua compagnia”, qualche giorno prima della morte di Rémi. Sul furto dell’auto, il suo racconto è vago e confuso: un momento di pazzia, le chiavi ritrovate “grazie alla provvidenza” al centro medico psicologico di Rodez, dove Clotilde Fraisse è anche lei in cura, e poi… più niente. Nega di essersi presentato alla gendarmeria. Sapeva a chi appartiene la vettura? Nessuna risposta.
Nessun dettaglio su eventuali custodie cautelari nel dossier, nessuna conseguenza. Il complice Jérémy è sparito nel nulla. La versione ufficiale di questa storia: una ragazzata, e basta.
Tuttavia, la vicenda resta poco chiara: non c’è niente nella vettura di Clotilde Fraisse che possa permettere di identificare la sua proprietaria. L’unico modo per saperlo è avere accesso alle informazioni riservate alle forze dell’ordine, nelle quali il veicolo è registrato in seguito a un precedente di Clotilde. È possibile che si sia tentato di screditare la famiglia utilizzando due persone squilibrate?
Se questa era l’intenzione, l’esito è stato un fallimento. I media tracciano il ritratto vero di Rémi e contraddicono l’immagine violenta e bellicosa che ne era stata fatta finora. In seguito all’intervento della stampa, un investigatore della sezione di ricerca di Tolosa riceve una mail, che compare nel dossier: “Devi mettere tutto a tacere su quei due che si sono presentati a Rodez il 27 ottobre. Lo so che sono stati arrestati e che non ha niente a che vedere con la nostra storia, ma chiudi tutto e non se ne parla più”. Il messaggio è firmato da un responsabile dell’ufficio delle inchieste giudiziarie dell’IGGN (Ispezione generale della gendarmeria nazionale). A Parigi, sembrano quindi molto interessati a un semplice furto d’auto in provincia.
Quando gli investigatori tentano di intimidire i familiari e i testimoni
Il 29 ottobre, si apre l’istruttoria contro ignoti per “violenze volontarie aventi provocato un decesso non intenzionale”. Anissa Oumohand e Élodie Billot, i due giudici di Tolosa in carica dell’inchiesta, delegano i propri poteri alla stessa IGGN e ai gendarmi della sezione di ricerca di Tolosa.
È un’eresia, secondo una fonte vicina alla gendarmeria: “non avrebbero mai dovuto essere designati per portare avanti l’inchiesta. I gendarmi della Haute-Garonne e del Tarn sono cugini, è come se la vicenda fosse accaduta nel loro territorio”. Per “spirito di famiglia” o per una volontà manifesta di orientare l’inchiesta, i militari di Tolosa s’impuntano per trovare degli elementi contro Rémi. Sequestrano il suo computer. Nel corso delle settimane, i suoi familiari e amici sono interrogati e messi sotto pressione: “Sappiamo tutto, attenzione a quello che dite!”, hanno intimato a un amico di Rémi Fraisse, all’inizio della deposizione.
Un compagno della vittima racconta che: “I gendarmi continuavano a chiederci se Rémi fumasse erba. Ogni interrogatorio è stato condotto con l’intento di dimostrare che fosse un delinquente”. Invano: malgrado tutte le pressioni esercitate sui familiari e gli amici di Rémi, i gendarmi non trovano niente di negativo sul suo conto.
I tentativi di intimidazione si spostano allora sulle testimonianze dei manifestanti che contraddicono la versione delle forze dell’ordine. Marc, attivista di lunga data che abbiamo già citato nella prima parte dell’inchiesta, è interrogato dai gendarmi un mese dopo l’accaduto. “All’inizio, erano calmi”, ci spiega. Quando si arriva alla questione spinosa della posizione reale dei militari, l’interrogatorio prende una strana piega. “Il capitano in carica dell’inchiesta va su tutte le furie quando gli spiego che, la notte della morte di Rémi, vedo arrivare dei gendarmi che si posizionano fuori dalla zona dei prefabbricati del cantiere. Mi cita un altro testimone che non avrebbe visto la stessa cosa. E poi si arrabbia precisandomi che anche lui era a Sivens, vittima di lanci di sassi e cocktail Molotov”.
Davanti al comportamento degli investigatori, Marc si rifiuta di firmare il verbale della testimonianza, che è comunque integrato al dossier. Verbale nel quale non vi è alcuna menzione della posizione dei militari, informazione tuttavia cruciale e citata dal testimone.
Al contrario, gli investigatori aggiungono che “le sue dichiarazioni presentano delle incongruenze su quanto è accaduto e quanto vissuto dal testimone. Non sapendo più come giustificare le sue informazioni, si arrabbia […]. L’interessato sembra particolarmente turbato psicologicamente”.
Vittima di un colpo di flash-ball la notte della morte di Rémi Fraisse, Marc sporge denuncia contro le forze dell’ordine qualche settimana più tardi, nell’Aveyron, dove vive. Nel corso di questa seconda deposizione, reitera le sue affermazioni. Ma il verbale dove c’è scritto nero su bianco che i militari erano posizionati al di fuori della zona loro concessa non sarà mai integrato al dossier.
Gli investigatori della sezione di ricerca di Tolosa continuano a intimidire gli altri testimoni. Avendo dichiarato alla stampa, sin dal giorno dopo della morte di Rémi Fraisse, di “granate lanciate verso i manifestanti”, Marie (il nome è stato cambiato) è invitata qualche settimana più tardi a presentarsi alla gendarmeria. La ragazza, incontrata da Reporterre, è ancora scossa dallo svolgimento della deposizione e dai “due individui minacciosi” che l’hanno ricevuta. Marie racconta loro della violenza delle forze dell’ordine la notte della tragedia, evocando “proiettili incandescenti”, probabilmente lanciati dai militari. “Non mi credevano”, ci spiega. Poi iniziano a farle paura: “a questo punto la chiameremo davanti ai giudici perché lei non sa di cosa parla”. Come Marc, Marie, rifiuta di firmare il verbale della testimonianza e ormai vuole lasciarsi alle spalle l’intera faccenda.
Altri testimoni hanno rilasciato una versione diversa dei fatti e sono stati vittime di questi metodi controversi. Nell’ottobre del 2015, un anno dopo la morte di Rémi Fraisse, Christian, un testimone diretto della sua morte raccontava a Reporterre della posizione dei militari, troppo vicini ai manifestanti. E dichiarava di essere a disposizione della giustizia.
Due giorni dopo la pubblicazione delle sue dichiarazioni, la gendarmeria del Tarn riporta agli investigatori di Tolosa di essere stata contattata via Facebook dall’ex-compagna di Christian. Questa affermerebbe che Christian “tenta di provocare disordine evocando una versione diversa da quella dei gendarmi”. La macchina si mette immediatamente in moto: l’ex-compagna è ricevuta dagli investigatori di Tolosa. Rilascia “una versione dei fatti che cambia nel corso dell’anno”. La linea telefonica di Christian è ufficialmente requisita. Una volta localizzato, è convocato dagli investigatori ma si rifiuta di testimoniare davanti “a gendarmi che indagano su altri gendarmi” e vuole essere ricevuto direttamente dai giudici.
È allora piazzato ufficialmente sotto ascolto per qualche settimana. I suoi contatti sono minuziosamente registrati e le sue conversazioni archiviate. All’inizio del 2016, è finalmente ricevuto dai giudizi, che non mancano di chiedergli conto delle dichiarazioni della sua ex-compagna.
Lui risponde: “non so perché l’ha fatto, io mi prendo la responsabilità di quanto ho dichiarato”, precisando che la sua versione è stata dichiarata ai giornalisti sin dal giorno dopo la morte di Rémi Fraisse.
Christian non è stato il solo testimone a essere ricevuto dai giudici all’inizio dell’anno. Altri testimoni hanno finalmente potuto raccontare la propria versione dei fatti senza subire la pressione dei gendarmi. Resta ora da sapere se altre persone si presenteranno davanti alla corte. Ai giudici, infine, il compito di fare luce sulla morte di Rémi. Ma anche di stabilire quali sono le responsabilità delle forze dell’ordine, del gendarme che ha lanciato la granata fino alle più alte autorità dello Stato. Per sapere una volta per tutte chi ha ucciso Rémi Fraisse.