Sono centinaia, vengono da decine di paesi diversi: Eritrea, Somalia, Mali, Gambia, Ghana, Nigeria, Senegal, Pakistan, Afghanistan… Parlano lingue differenti.
di Alice Facchini
Dormono in piccole stanze sovraffollate, quelle che prima erano celle, oppure in tende blu scuro della protezione civile, posizionate su una spianata di cemento dove batte sempre il sole. Si lavano e fanno i loro bisogni nei bagni chimici. La loro giornata è scandita da file: la fila per la colazione, la fila per ricevere le schede telefoniche per chiamare la propria famiglia rimasta nel paese d’origine, la fila per il pranzo, la fila per fare le impronte digitali, la fila per prendere i vestiti nuovi, la fila per la cena. Queste persone sono qui per aspettare, e così fanno, aspettano. Benvenuti nell’aspettatoio.
L’aspettatoio è una struttura circondata da cancelli e sbarre, proprio come una prigione. A differenza delle prigioni, però, non è chiuso: gli aspettanti, gli ospiti dell’aspettatoio, possono entrare e uscire quando vogliono. Peccato che l’aspettatoio sia distante dal centro città: sorge in periferia, lontano dagli occhi dei cittadini, dove non dà fastidio alla borghesia progressista benpensante. Così, quando gli aspettanti vogliono fare un giro, sono costretti a prendere un autobus e a utilizzare l’intero contributo giornaliero che gli spetta (2,50 euro) per pagare la corsa di andata e di ritorno. Altrimenti possono spostarsi a piedi e camminare per 5 chilometri lungo un vialone trafficato, attraversando svincoli e rotonde.
Inizialmente l’aspettatoio poteva ospitare un massimo di 300 persone, diventate poi 500 e infine 700: per aumentare la capienza, in un paio di giorni i letti singoli sono stati trasformati in letti a castello e sull’asfalto del cortile sono state montate nuove tende della protezione civile. Dentro ogni tenda ci sono 8 posti letto, quattro brandine da un lato e quattro dall’altro, l’una attaccata all’altra.
Luogo sovraffollato e isolato, dove convivono a stretto contatto diversi gruppi nazionali e linguistici, in cui l’attesa e il continuo procrastinare della burocrazia si mescola all’indigenza delle persone, l’aspettatoio è diventato il laboratorio perfetto per la nascita di forme di tensione sociale sempre diverse. Si va dai litigi alle risse, dallo spaccio di droga alla prostituzione.
In più, chi transita per l’aspettatoio ci resta solo per qualche giorno e poi se ne va (almeno, questa dovrebbe essere la procedura). Lo aspetta un altro aspettatoio, un altro passaggio di quella trafila burocratica che promette di poter diventare, un giorno, una “persona legale”. Il risultato è che quasi nessuno ha interesse a mantenere un clima pacifico e disteso all’interno della struttura, visto che tanto si tratta per quasi tutti di una situazione provvisoria.
Ci sono però anche persone costrette a rimanere qui più a lungo, per diverse settimane, in alcuni casi per diversi mesi: si tratta dei minorenni oppure di coloro che hanno scelto la strada della relocation, ossia il trasferimento in un altro Paese europeo per avviare lì la procedura di richiesta di asilo. In questi due casi, l’aspettatoio diventa la loro casa per un periodo di tempo abbastanza dilatato, e così questi aspettanti potenziati imparano a far scorrere il tempo senza sentirne il flusso sulla pelle.
Le giornate scorrono una uguale all’altra senza conseguenze, la persona non cresce perché non fa esperienza di nulla, bloccata in uno stato di catalessi che dura giorni interi.
Ci si risveglia solo quando si ha qualche notizia sul proprio trasferimento, sullo sbloccarsi di questa o quella posizione, per poi intorpidirsi di nuovo quando si capisce che occorre ancora tempo, procedure, permessi, controlli. Questi aspettanti potenziati sono spesso i più soggetti alla regola generale che vige nell’aspettatoio e che recita così: “Arraffare l’arraffabile”.
“Arraffare l’arraffabile” è il primo comandamento degli aspettanti, una filosofia, un modo di vivere. Il principio è: visto che non ho niente, cerco di accaparrarmi il più possibile. Non importa se si tratta di soldi, vestiti, piatti di pasta o semplici mele: più ne ho meglio è. Anche se non ne ho bisogno in questo momento, anche se non mi va, devo averne di più. Perché è proprio quel di più che mi salverà: potrebbe servirmi in futuro, in un momento di carenza, oppure potrei barattarlo con qualcos’altro di più utile. Così, senza farsi vedere, a colazione molti provano a prendere una merendina in più rispetto alla regola, ai pasti una porzione in più, alla distribuzione di vestiti una maglietta in più, e così via. E chi non se la sente di farlo di nascosto, supplica per avere qualcosa in più degli altri, contrae il volto, abbassa la voce, allunga la mano. Non capisce, o forse non gli interessa, che qui nell’aspettatoio non ci può essere eccezione che confermi la regola, perché se uno prende di più, qualcuno resterà senza. All’interno di queste mura, oltre le alte sbarre d’accaio, si gioca quotidianamente questa guerra tra poveri combattuta senza armi e che non ha vincitori.
Un altro problema sono le malattie: gli aspettanti hanno alle spalle viaggi sfiancanti in mezzo al deserto e per mare, arrivano annientati, bisognosi di cure e di supporto psicologico. Ma nell’aspettatoio si è in troppi e ci sono pochi medici. La precedenza, quindi, viene data alle situazioni gravi: malaria, epatite, tubercolosi, meningite, varicella. Subito vengono forniti i medicinali, ma l’isolamento è difficile, c’è poco spazio. Il malato resta così nella stessa stanza con i sani, riconoscibile solo dalla mascherina bianca che gli copre la bocca. Gli altri non sembrano preoccupati di un possibile contagio: con fatalismo continuano la propria vita, seguitando ad aspettare, anche al suo fianco.
Chi ha un atteggiamento diverso rispetto a tutti gli altri nell’aspettatoio sono invece i bambini. Nei loro occhi non si vede intorpidimento né rassegnazione, tutt’altro: un vulcano di energia che sembra originarsi nelle viscere e eruttare in urli potenti, risate scroscianti, corse a perdifiato.
Non si stancano mai, a tutte le ore del giorno e della notte si inseguono nel giardino di cemento, inventando sempre nuovi giochi. Sono proprio come tutti gli altri bambini: la situazione in cui sono costretti non è ancora riuscita a modificare quel lato prepotentemente umano che in certi altri casi va scomparendo quando si tratta di persone più adulte.
Ma anche gli aspettanti vivono momenti di gioia e di festa: si tratta dei trasferimenti. I trasferimenti sono il desiderio primo di ognuno di loro, la meta dell’attesa, superata la quale si chiude un ciclo e se ne apre un altro. Essere trasferiti significa aver superato il primo ostacolo burocratico, ma anche andarsene da quel posto, abbandonare i disagi e buttarsi alle spalle quei giorni difficili. Quando è il momento del trasferimento, l’aspettante viene avvisato poco prima: all’inizio scoppia a ridere dalla gioia, poi in fretta fa la valigia (infilando in uno zainetto i pochi beni che è riuscito a accumulare nei giorni di permanenza), saluta gli amici con abbracci serrati e poi si guarda indietro un’ultima volta, prima di salire in fretta sul furgoncino. Si sente pieno di speranza, chissà cosa gli riserverà il futuro ora. In questo momento la persona perde il suo status di aspettante, finalmente vive pienamente, il futuro è arrivato ed è diventato presente, non c’è più bisogno di attendere. Sarà solo qualche giorno dopo che, ritrovandosi in un altro centro per aspettanti, scoprirà suo malgrado che l’aspettatoio che ha appena lasciato non era che il primo di una lunga serie, e capirà di essere tornato aspettante, anzi di non aver mai smesso di esserlo. Così lentamente si rifugia in un angolo, la schiena al muro, si rannicchia, socchiude gli occhi, appoggia la testa sulle ginocchia. E aspetta.