di Gabriella Ballarini
Ed io mi ricordo che ci sono dei libri che ti cambiano la vita.
Altri libri che ti cambiano un pomeriggio.
E poi ci sono quei libri che ti cambiano la profondità dello sguardo, che trasformano la tua cameretta in un itinerario e una parola alla volta ti scopri tra le braccia di Marco Polo e sei come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono né staccarsi, né guardarsi. Ho contato gli anni e quando lui è morto io ne avevo 6 e mi preparavo a fare la prima elementare. Ignara del Visconte dimezzato e del Barone rampante, senza nessuna idea dell’esistenza del Cavaliere inesistente.
Camminavo con i miei piedini in una piccola città invisibile di cui non conoscevo né i fili, né gli ambigui miracoli.
Non sapevo nulla di Zirma e del fatto che la memoria è ridondante perché ripete i segni fino a che la città comincia finalmente ad esistere.
Avevo delle scarpe piccole che a volte mi portavano sulla riva del mare e, in un altro mare, il signor Palomar non si perdeva d’animo e ad ogni momento credeva di esser riuscito a vedere tutto quel che poteva vedere dal suo punto d’osservazione, ma poi saltava fuori sempre qualcosa di cui non aveva tenuto conto. Come ad esempio la luna del pomeriggio. Che nessuno la guarda, ed è quello il momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interessamento, dato che la sua esistenza é ancora in forse.
Da piccola avevo una macchina fotografica che si chiamava Polaroid, un modello di quelli neri con la striscia arcobaleno e il flash che scoppiettava. Ogni volta era un’avventura, come fosse l’avventura di una piccola fotografa, una di quelle che inseguono la vita che sfugge, una cacciatrice dell’inafferrabile, come gli scattatori di istantanee. Anni dopo ripresi in mano quell’avventura e Calvino mi ricordava che la vita che viviamo per fotografarla, è già in partenza commemorazione di se stessa.
Commemorare. Scrivere di Italo Calvino con le parole di Italo Calvino.
Un piano perfetto.
Quel senso d’isolamento di chi sta guardando dal di fuori la vita d’una sera qualsiasi in una piccola città qualsiasi e che si rende conto d’esser tagliata fuori dalle sere qualsiasi per chissà quanto tempo.
Ma questo a sei anni non lo capivo, mi affascinava di più il mondo non scritto, quello che se ti viene in mente di metterlo giù in parola ci credi solo se ti stanno raccontando la verità. E così scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi.
Noi che siamo così, uomini da vento, che hanno bisogno camminando di attriti e di abbrivi, parlando di mettersi tutt’a un tratto a gridare mordendo l’aria.
La mia scuola elementare era vicino al mare e sulla riva del mio paese, il mare s’era accorto di me e faceva le feste come un grande cane. Il mare, gigantesco amico delle mie piccole mani bianche che raspano la ghiaia, ecco che scavalca i contrafforti dei moli, impenna la bianca pancia e salta i monti, eccolo che arriva festoso e poi sparisce come bevuto dalla terra.
E io ora sono qui senza saper più che fare, ultimo viaggiatore in attesa in questa stazione dove non parte e né arriva più nessun treno prima di domani mattina.
E non ho più sei anni e tu, Italo, mi sembri così vicino.
Forse, come dici tu, bisogna che un luogo diventi un paesaggio interiore. Come Parigi.