Delocalizzati a casa nostra

Il documento Invest in Italy invita i capitali stranieri perché la forza lavoro italiana è di alto livello ma costa meno che altrove. Un messaggio che non è piaciuto e che racconta di un’economia a due velocità


Di Clara Capelli

La prima, immediata, sensazione è quella di trovarsi a leggere di un Paese che non è il proprio. Sarà forse stato l’uso dell’inglese a trasformare l’Italia in una destinazione cool per gli investimenti stranieri: dinamica, riformatrice, proiettata verso il futuro e l’innovazione. E con un capitale umano di prima qualità e a buon mercato.

Il documento Invest in Italy dell’Istituto per il Commercio Estero (ICE) è stato pubblicato in occasione della presentazione del piano nazionale Industria 4.0 (con riferimento alla quarta rivoluzione industriale), mirato alla promozione dell’industria basata sulle nuove tecnologie e ispirato a politiche simili già avviate in Francia, Germania e Stati Uniti.

Rivolto a potenziali investitori stranieri – il sito dell’ICE parla di eventi speciali a Istanbul, Tokyo, Pechino, Dubai, Londra, New York e altre hub economici sparsi in tutto il mondo – Invest in Italy illustra in 40 pagine le diverse attrattive dell’Italia, dalla sua posizione strategica unita a un’economia solida e competitiva fino alle riforme del mercato del lavoro.

A cominciare da un articolo di Eleonora Voltolina per la Repubblica degli Stagisti, il riferimento al capitale umano a basso costo non è però piaciuto a molti. Se da una parte si lodano i successi del sistema educativo italiano (lo stesso tanto vituperato sistema per cui gli studenti italiani fanno brutta figura ai test PISA dell’OCSE), dall’altro si precisa che “un ingegnere in Italia guadagna 38.500 euro in media all’anno, mentre in altri Paesi europei lo stesso profilo percepisce in media oltre 48.500 euro all’anno”. Il documento non specifica con quali “Paesi europei” si faccia la comparazione, il che potrebbe suggerire che l’ingegnere italiano è sì più economico di un collega francese o tedesco, ma forse non tanto quanto spagnoli o lituani. Sul prezzo, tuttavia, si può sempre contrattare, anche su quello del lavoro.

whyinvestinitaly

Non è finita: si ricorda anche che il costo del lavoro in Italia sta crescendo meno degli altri Paesi europei: 1,2% dal 2012 al 2014 rispetto a una media europea di 1,7% sullo stesso periodo, per altro ben al di sotto del 2,32% tedesco e del 2,10% irlandese. “The right moment” proclama Invest in Italy nel suo pitching per gli investitori di tutto il mondo. Perché il costo della manodopera qualificata è basso e basso resterà rispetto agli altri Paesi negli anni a venire, contrariamente a quello che viene spesso ribadito come causa dei mali dell’Italia. Approfittatene allora.

È evidente che un documento rivolto a potenziali investitori stranieri debba concentrarsi sugli elementi di attrattività di un’economia, anche presentando i dati in modo “selettivo”, fino al punto da vendere come un punto di forza ciò che in realtà è una debolezza.

Che i salari italiani crescano poco e meno della media europea (in aggregato, magari agli ingegneri italiani andrà meglio se riescono a far fronte alla concorrenza straniera) è tuttavia un problema, perché segno di un’economia con forti problemi di produttività, stagnante dal 2000 al contrario dei principali partner economici europei. Nel mondo che parla inglese questo però non si deve dire.

L’Italia è ancora l’ottava economia del mondo, ma è anche un Paese che negli ultimi anni ha oscillato tra crescita negativa e crescita prossima allo zero (-1,75% nel 2013, -0.34 nel 2014, 0,76% nel 2016, secondo dati Banca Mondiale). È proprio di questi giorni la notizia che l’OCSE ha rivisto al ribasso le stime di crescita di alcuni Paesi per il 2016 e il 2017, ivi compresa l’Italia che si attesta a un timido 0.8% per entrambi gli anni (anziché all’1,1% inizialmente previsto).

Invest in Italy ricorda che abbiamo guadagnato negli ultimi anni oltre 30 posizioni nella classifica Doing Business (soprattutto per la semplificazione delle procedure per avviare un’attività, introdotta dal governo Monti, e per la più efficiente applicazione dei contratti), ma rimaniamo comunque alla 45esima posizione, laddove molte delle prime economie del mondo si trovano nella parte più alta del ranking (per restare all’Europa, il Regno Unito è alla sesta posizione, la Germania alla 15esima e la Franca alla 27esima).

Il documento dedica inoltre un’intera sezione alle riforme “pro-business”, considerate come un promettente motore di crescita.

Cita un dato molto specifico dell’FDI Report 2015 (redatto dall’FDI Intelligence, divisione del Financial Times che si occupa di investimenti esteri) secondo il quale il numero dei progetti di investimento estero in Italia sono aumentati del 31% dal 2013 al 2014, glissando però sul fatto che si parla del totale di progetti (77 nel 2013, 111 nel 2014), una misura molto volatile da un anno con l’altro, e non del loro valore complessivo.

Passando dal mondo che parla inglese a quello che parla italiano ci dovremmo però anche chiedere quante società italiane sono state acquisite da compagnie straniere negli ultimi anni, ma potremmo rimanere delusi dalla risposta. In ripresa ma ancora debole e di limitato impatto sulla scena globale resta l’attività di investimento italiano in questo senso, a conferma di una tendenza di sostanziale passività dell’Italia rispetto alle dinamiche internazionali, più intenta a ricorrere i capitali stranieri che non a collocare strategicamente i propri.

download

Sempre in tema di riforme, Invest in Italy menziona con orgoglio uno studio dell’OCSE del febbraio 2015 secondo il quale le riforme in cantiere determineranno una crescita del PIL del 3,4% nei successivi tre anni. Ma questo studio non fornisce alcuna informazione sulla metodologia seguita per ottenere le stime, limitandosi ad affermare che il Jobs Act “promotes an efficient allocation of labour resources, by making it easier for firms to respond quickly to changes in technology or product demand that require reallocation of staff or downsizing”. In italiano significa che l’assunzione di fondo del modello utilizzato è che se si può licenziare più facilmente, l’impresa è più efficiente e si cresce di più. Ma con un altro tipo di modellistica i risultati dello studio potrebbero essere differenti. Molto differenti.

Tuttavia, a quasi due anni dall’introduzione del Jobs Act, la conclusione condivisa da diverse analisi – si vedano per esempio lavoce.info e il Keynes Blog a proposito – giungono alla conclusione che questa misura non si sia tradotta in un aumento di posti di lavoro. Né tanto meno a un’impennata dell’economia, come accennato poco sopra.

Ci si vanta in inglese della spesa annuale media di 20 miliardi di euro in Ricerca&Sviluppo, ma non si dice che in rapporto al PIL questa ammonta a meno dell’1,3% (dato OCSE per il 2014), ben al di sotto della media UE di 1,9% e largamente inferiore non solo a Paesi come Austria e Danimarca (3,07% e 3,06% rispettivamente), ma anche a Francia (2,2%) e Germania (2,8%).

Viene omesso, le logiche del marketing non lo consentono, che il capitale umano italiano di cui si va – giustamente – fieri è da diversi anni protagonista di un fenomeno di migrazione verso l’estero. I dati i merito sono complicati da raccogliere, ma l’OCSE stima che tra il 5 e il 10% dei laureati italiani vivano stabilmente in un Paese OCSE, mentre l’ISTAT rilevava nel 2015 che il 12,9% di chi aveva conseguito un dottorato tra il 2008 e il 2010 (soprattutto matematici, fisici e informatici, ossia i profili che dovrebbero essere l’anima pulsante di Industria 4.0) aveva abbandonato l’Italia per lavorare all’estero. A essere attrattivi per gli investitori stranieri sono dunque quelli che rimangono.

Due mondi diversi quello dell’inglese e quello dell’italiano. Il primo è la destinazione ideale per gli investitori stranieri dell’industria 4.0, alla ricerca di competenze a prezzi competitivi. Una realtà che produce per l’export e che si muove a testa alta sulla scena internazionale.

Il secondo è il mondo da nascondere sotto il tappeto, perché non lo si vuole vedere, perché non sta bene farlo vedere. Il mondo del brain drain (o fuga di cervelli, a seconda della lingua che si preferisce parlare), della disoccupazione giovanile oltre il 40% (dato Istat per il 2015) e del tasso di NEET (Not in Education, Employment or Training, ossia i più emarginati fra i giovani) al 22,7%, fra i più alti di Europa. Il mondo che rischia di essere lasciato indietro anche da Industria 4.0, caratterizzato da disuguaglianze sociali crescenti e da mai risolte disparità regionali tra Nord e Sud, tra poli d’eccellenza e periferie. Il mondo che agli investitori stranieri non interessa. Il mondo creato dal “crollo del mercato interno”, come ammette lo stesso sito dell’ICE citando una contrazione del fatturato interno dell’industria manifatturiera del 2,7% tra il 2009 e il 2015 (contrapposta a una crescita del 18,1% per la Germania e del 6,9% per la Francia).

Il mondo di Invest in Italy probabilmente piacerà agli stranieri. Per il mondo che non ci piace invece chissà cosa si può fare. Questa è la domanda che ci dovremmo porre, mentre “l’altrove” sembra tristemente essere l’unica alternativa contemplata: altrove si fugge per avere opportunità di lavoro che non troviamo in Italia, da altrove vengono i capitali che salveranno alcuni di noi, a cominciare -si spera – dai nostri bravi ingegneri in offerta speciale.

(Questo articolo rappresenta
il punto di vista dell’autrice,
espresso a titolo personale)