Parole per Anna

Un racconto collettivo della nostra redazione dedicato alla giornalista della Novaja Gazeta uccisa il 7 ottobre di dieci anni fa

a cura di Antonio Marafioti

Dieci anni dall’assassinio di Anna Politkovskaja. Un senso di ingiustizia grande così, destinato a diventare, con tutta probabilità, ancor più grande nei prossimi venti, forse trenta o cinquant’anni. È la legge dell’impotenza che regola i crimini commessi in un territorio praeter legem. Quello degli omicidi senza mandanti né esecutori, senza responsabilità accertate una volta per tutte. Esecuzioni silenziose che non verranno mai discusse in un’aula di tribunale, che rimarranno sempre sospese oltre la bilancia della giustizia. Nel caso di Anna il senso di impotenza a carico di quella parte della pubblica opinione rispettosa delle regole di uno stato di diritto, diventa, senza eccessive speculazioni intellettuali, un vero e proprio paradosso.

Com’è possibile essere ancora così distanti dalla verità sull’omicidio di una giornalista che della ricerca della verità aveva fatto uno dei principali obiettivi del suo lavoro?

C’è un particolare che continua a colpire l’immaginario collettivo con la stessa potenza dei quattro proiettili sparati a bruciapelo sull’inviata della Novaja Gazeta: il luogo dell’attentato. Il killer la raggiunse alle spalle mentre era in ascensore. La destinò a morire in un luogo senza vie di fuga; in uno spazio angusto che sembrava essere stato scelto apposta per cercare di limitare la sua azione, di contenere le sue scoperte.

L’ascensore di Anna diventò l’anticamera della sua fine, la bara di gran parte dei suoi segreti.
Non è più tale quello svelato dall’editore della NG, Dmitrij Muratov che, a poche ore dall’omicidio, confermò l’imminente pubblicazione di un’inchiesta della sua giornalista sulle torture commesse dagli uomini dell’allora primo ministro ceceno, Rasman Kadyrov.

Chissà che cosa penserebbe oggi Anna se sapesse che Kadyrov è ancora lì, fermo al suo posto, questa volta di presidente, potente più che mai (97.94% dei voti alle elezioni dello scorso settembre).

Che il collega Ruslan Martagov, che della politica di Kadyrov è stato sempre strenuo detrattore, è stato fatto sparire pochi giorni prima del plebiscito. Che Vladimir Putin, infine, continua ad aggirarsi per le stanze del Cremlino come uno zar del Ventunesimo secolo.

Sono solo alcuni degli scenari, quelli più vicini ad Anna, che non sono mai cambiati dal quel 7 ottobre 2006. Altri passi, prevalentemente passi indietro, sono stati fatti un po’ in tutto il resto del mondo. Ed è proprio per questo che oggi si sente come non mai il bisogno di vederli raccontati da una penna come quella di Anna Politkovskaja. Questa collettiva di Q Code è dedicata a lei, ai fatti che, pensiamo, avrebbero attirato le attenzioni della sua enorme curiosità professionale.

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Dieci anni e la fine di due lotte armate

di Angelo Miotto

Il senso di fare inchiesta, ma anche del buon reportage, della sana informazione è nel raccontare, scovare, dimostrare le storie. Dieci anni fa, giugno e luglio del 2006, fra le strade e i parchi ordinati di Ginevra viaggiavano gli emissari di un processo di pace che sarebbe poi naufragato, fra l’Eta e lo stato spagnolo. E dal 2011 Eta è uscita sostanzialmente di scena, con la cessazione definitiva dell’attività armata, grazie a un valoroso lavoro politico della sinistra basca.

Rimane il tema del disarmo, ma soprattutto quello dei prigionieri politici e della riparazione per le vittime. Vittime di Eta. Vittime della guerra sporca di stato, cittadini baschi uccisi con pistoleros pagati dai fondi neri gestiti dal governo socialista di Felipe Gonzalez.

Dieci anni dopo di questa storia non si ricorda quasi più nessuno. Perché, semplicemente, le bombe non scoppiano più e le pistole tacciono.

Ci sono ancora oltre cinquecento famiglie, e chissà ancora quante di rifugiati ed esiliati, che grazie a una giustizia di transizione potrebbero riabbracciare i propri cari, o vederli detenuti in prigioni prossime ai loro domicili.

Dieci anni dopo in Colombia la pace c’è, ma un referendum per ratificarla è andato quasi deserto. Un percorso entusiasmante: Cuba casa comune per trattative fra FARC e governo, con l’ex presidente Uribe Velez a far da guastafeste. Titoli sui giornali e reportage nei momenti delle strette di mano.

Ma come facciamo a capire come si muove una società se ci fermiamo sempre e solo alla superficie delle cose?

Quanto ci manca uno sguardo anche solo compilativo ormai su quello che fu il Plan Colombia, i sostegni al paramilitarismo – che ora apprezziamo sulle serie tv -, le responsabilità, i legami con i quartier generali in mimetica. Dove la droga è sempre stata, fin dal dopoguerra, rotta e strumento delle operazioni coperte.

 

Il confine del buon giornalismo

di Christian Elia

Quando per qualcuno inizia la paura, quando per qualcun altro finisce l’attenzione, si trova il confine del buon giornalismo. Anna, da sempre, ha voluto valicare quel confine. Senza calcoli, senza limiti. Perché capire, vedere, toccare, raccogliere è tutto. È mestiere di infiniti svelamenti.

Anna ha raccontato la guerra di Cecenia come dovrebbe essere raccontata ogni guerra, dal punto di vista degli ultimi senza perdere di vista il ‘cui prodest’ generale.

Senza mai accettare le versioni del potere, di qualsiasi potere. Anna ha pagato, ma ogni volta che giriamo la testa, le spariamo ancora. Anna ha scritto quello che andava scritto. Perché solo superando quel limite, si arriva a fotografare la realtà, senza pretese di verità, ma camminando lungo l’insidiosa strada della coerenza e dei fatti.

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E poi arrivò la crisi finanziaria

di Clara Capelli

Nel 2006 ancora non si sapeva che sarebbe arrivata la crisi. Poi fu crisi finanziaria, il crollo di quei giganti che avevano speculato danzando d’azzardo su titoli spazzatura, credendosi invincibili ma poi accartocciandosi come la carta straccia su cui si sono costruite fortune.

Poi fu la crisi degli Stati, che avevano speso troppo, ma forse no, forse era l’indebitamente privato il problema, forse una politica economica che aveva abdicato al suo ruolo, ma meglio non dirlo. Poi fu crisi dappertutto e ora la mancanza di futuro è parte della quotidianità della maggioranza, mentre la minoranza riposa sui suoi privilegi chiamandoli meriti.

Chissà cosa avrebbe scritto Anna Politkovskaja della crisi vista dalla Russia degli oligarchi, dei grandi patrimoni nelle mani di pochi generati a colpi di liberalizzazioni e privatizzazioni che avrebbero dovuto portare efficienza e invece no.

Chissà se avrebbe mai voluto fare luce sui disoccupati e gli esclusi dell’economia russa, di quel mondo nascosto dietro statistiche opache e dati che non convincono, rendendo giustizia almeno attraverso il racconto e la parola.

 

Ti parlo di Ilaria e Miran

di Cora Ranci

Cara Anna,
vivo in un Paese che si considera democratico, ma i cui cittadini si sono abituati a non conoscere la verità su tanti fatti gravissimi del passato. Su troppe tragiche morti aleggia un tremendo sospetto, molto spesso confermato: lo Stato, attraverso suoi uomini e apparati, si è adoperato affinché la verità non emergesse.

Ventidue anni fa, una donna, una giornalista come te, ha scoperto un traffico di armi e di rifiuti tossici tra il nostro Paese e una sua ex colonia africana.

In questi loschi affari erano coinvolte anche le istituzioni del mio Paese. Capisci bene che quell’inchiesta non poteva uscire senza provocare un terremoto politico. Così, quella donna è stata assassinata, insieme al suo operatore. Si chiamavano Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Oggi le istituzioni li ricordano e pateticamente onorano la loro memoria. Nessuno, però, ha davvero voluto che tutta la verità emergesse. E nessuno sta pagando per questo. Confidano sul nostro oblio e noi, altrettanto pateticamente, gliela stiamo dando vinta.

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Non è bastato Obama

di Antonio Marafioti

Anna non fece in tempo a vedere gli Stati Uniti guidati dal primo presidente afroamericano. Barack Obama si annunciava, nel 2008, come l’uomo del cambiamento, della speranza, come l’artefice di riforme considerate ormai necessarie dopo otto anni di un’amministrazione repubblicana guidata da uno dei peggiori presidenti repubblicani che la storia degli Stati Uniti abbia mai conosciuto.

Barack non ce l’ha fatta e, in alcuni casi, ha anche peggiorato la situazione.

Troppo deboli le sue maggioranze parlamentari, troppo forti gli interessi economici legati alle guerre condotte da una nazione che attaccava altre nazioni con il pretesto di difendere sé stessa. E sul fronte interno? Neanche le origini afro dell’uomo più forte sono riuscite a salvare i suoi connazionali, quelli con il suo stesso colore della pelle, dalle discriminazioni della polizia. Ne sono morti tanti negli ultimi anni per mano, armata, degli agenti e il Paese, oggi, è sempre più diviso. Una parte di cittadini è costretto ad ascoltare, in questi mesi di campagna elettorale, le farneticazioni di un uomo di rara ignoranza che ambisce a diventare il comandante in capo delle forze armate della prima potenza mondiale.

Ma la cosa davvero grave è che l’altra parte della popolazione semplicemente lo sostiene.

 

Di Eritrea e migranti

di Paolo Riva

Chissà quanti giornalisti come te, Anna, ci sono stati e ci sono in Eritrea. Saperlo è quasi impossibile. Possiamo supporre che siano tanti. Oppure, al contrario, possiamo immaginare che nessuno, in quella che molti definiscono la Nord Corea africana, abbia più la forza di mettersi contro il potere, e di pagarne il prezzo. Perché, se ha senso stilare una classifica di chi più opprime, persino la Russia di Putin arriverebbe probabilmente dopo l’Eritrea di Afewerki, che era presidente già da tempo quando tu eri in vita e lo è ancora oggi.

Per ricordare la tua figura, il tuo giornalismo, la tua vita e la tua tragica fine, penso all’Eritrea.

Penso alla repressione, alle libertà negate, alla mancanza di diritti che là sono la norma e che tu hai sempre denunciato, anche se a migliaia di chilometri di distanza. Penso a quanto questi fattori portino migliaia e migliaia di persone a lasciare clandestinamente il paese per diventare i profughi che, quando non annegano, sbarcano sulle nostre coste e sono quegli ultimi ai quali tu hai sempre dato voce. Penso ai racconti dell’Eritrea che si sono moltiplicati dopo la strage del 3 ottobre 2013, le cui vittime sono in larga parte cittadini di Asmara, e dei quali invece ce ne sarebbe stato bisogno ben prima nel corso di questi dieci anni senza di te, che alle storie dimenticate hai sempre dato attenzione, a cominciare dalla Cecenia pacificata di Kadyrov e dei Kadyrovtsy.

Nel 2006, quando sei stata uccisa, l’Ue ha avuto meno di 200mila richieste di asilo.

Poi sono arrivati gli accordi con la Libia, i respingimenti, le condanne della Corte europea dei diritti dell’Uomo, le primavere arabe, la guerra in Siria e la cosiddetta emergenza immigrazione. Lo scorso anno un milione e trecentomila persone hanno chiesto protezione internazionale in Europa. E anche quest’anno lo faranno almeno in 800mila. Cosa scriveresti di loro, se fossi ancora viva? La curiosità di saperlo c’è, ma forse si tratta di una domanda stupida. Forse non ne avresti scritto, evitando di buttarti sulla grande notizia seguita da tutti per continuare ad approfondire le tue. E, forse, non ce n’è nemmeno bisogno perché, a differenza dei soprusi nascosti che tu svelavi, qui il dramma continua ad avvenire sotto gli occhi di tutti. Giorno dopo giorno, naufragio dopo naufragio.

 

La mafia è ancora intorno a noi

di Enrico Natoli

Nel 2005, dopo quarantatré anni di latitanza, fu catturato Bernardo Provenzano. Non lontano da Corleone conduceva una vita in apparenza frugale mentre nella realtà continuava a inviare i suoi ordini a una fitta rete di persone dai ruoli più disparati.

Le immagini dell’arrivo in caserma, l’esultanza degli agenti che si lasciavano andare a cori da stadio, l’aspetto dimesso di un uomo ormai anziano, erano segnali difficili da interpretare.

A lasciarsi andare alla speranza di sarebbe detto che la parte sana dello Stato, di noi stessi, aveva chiuso una partita che aveva visto il suo apice una decina di anni prima, in quel biennio che va dall’omicidio di Salvo Lima a quello di Don Pino Puglisi con in mezzo Falcone, Borsellino, le bombe a Roma, Milano, Firenze, il fallito attentato allo stadio Olimpico e quello mezzo riuscito a Maurizio Costanzo.

Invece le cronache odierne riportano una realtà in cui il sistema mafioso, a prescindere dagli uomini che lo rappresentano, permea qualsiasi aspetto delle nostre vite.

Senza il clamore dei decenni scorsi, non c’è luogo o attività economica in cui le mafie non sappiano come e dove mettere le mani. Con la compiacenza della politica o con la sua assenza: aspetti che spesso si sovrappongono, nascosti magari dalle risate di un imprenditore che gioisce per un terremoto.