“… se fossi un balcanico, se fossi un balcone, il balcone balcano” cantava Elio ne “La canzone del I maggio”. Con la fine delle guerre che hanno portato alla dissoluzione della ex Jugoslavia un nuovo spazio si è creato nella cartina europea: un buco nero, sgangherato, esotico, eccentrico, sanguigno e bizzarro. Dove la gente spara in aria con il kalashnikov per dimostrare la sua ilarità e brinda fino a frantumare i bicchieri. Così sono ri-nati i Balcani come un’idea di ferinità, caos e violenza liberatrice. Tutto quello che spaventa ma allo stesso tempo attrae le società europee riversato in un’area del mondo. Poi sono arrivati Goran Bregović ed Emir Kusturica e hanno venduto un brand da esportazione, che in Europa occidentale ha trovato particolari estimatori. In questo blog offriremo alcuni frammenti culturali dallo spazio jugoslavo e post-jugoslavo che hanno poco in comune, se non quello di riuscire sconosciuti a chi in quei luoghi va a cercare i Balcani.
di Francesca Rolandi
Un’icona della cultura di massa locale da esportare anche all’estero. Questo fu il vigile Jovan Bulj, che nella sua divisa impeccabile dirigeva il traffico a passi di danza e divenne parte del paesaggio urbano nella capitale della Serbia e della Jugoslavia.
Correvano i primi anni ’70 e in Jugoslavia la società dei consumi prendeva piede senza però scontarsi con l’ideologia ufficiale, ma anzi prestandosi a farle da pilastro: più alti standard di vita erano la testimonianza del successo della società socialista, che portava il progresso alla portata di tutti.
La motorizzazione era un simbolo e una promessa, quella di arrivare a possedere un’utilitaria costruita su licenza della Fiat, la cosidetta fićo della casa automobilistica Zastava.
Il traffico diventava così un emblema del progresso di cui la stampa andava fiera, sottolineando che i centri delle maggiori città erano invasi dalle automobili e che la piazza centrale di Belgrado era diventata un enorme parcheggio.
Ma questa nuova massa di automobili che – nella nuova favola pop dei consumi – sarebbe andata aumentando negli anni successivi doveva essere in qualche modo governata, preferibilmente in modo armonioso, come il partito governava la società in un socialismo dal volto umano.
Forse in questo contesto nacque il curioso mito di Jovan Bulj attraverso il quale si trasformò in leggenda la figura di un vigile urbano, che in genere è lungi dal far sognare automobilisti e pedoni.
Bulj veniva dal Ministero degli Interni, dove si occupava della sicurezza delle maggiori istituzioni federali e delle più alte personalità del paese. Pare che dopo la caduta del potentissimo ministro degli Interni Aleksandar Ranković – che portò una rivoluzione nel mondo della polizia –, abbia chiesto spontaneamente di essere degradato e di andare a dirigere il traffico nelle strade di Belgrado.
Qui, in breve, grazie ai suoi movimenti armoniosi che sembravano parte di una coreografia si trasformò in un’attrazione che iptonizzava turisti e locali.Noto per la sua gentilezza, ricordava spesso che una parola può fare più di una multa e veniva di frequente fotografato mentre aiutava i bambini ad attraversare la strada.
La sua fama oltrepassò i confini nazionali e Bulj iniziò a ricevere inviti a dirigere il traffico a Londra, a Parigi, Roma e Zurigo in molte altre capitali, mentre le sue estati erano dedicate alle tournée sulla costa adriatica. La casa discografica Jugoton gli dedicò una ballata, mentre stampa e televisione si interessarono alla sua figura.
Giravano voci sul fatto che fosse un ballerino fallito che si era arruolato nella polizia stradale, ma lui rispondeva che amava semplicemente il suo lavoro e nel farlo portava un po’ di bellezza e armonia nella vita quotidiana.
Le soddisfazioni non mancarono: Bulj si aggiudicò il terzo posto in una competizione internazionale di regolazione del traffico, venne invitato in diversi paesi europei per mostrare la sua arte e fu ospite di Tito e Jovanka, tra una pausa e l’altra dal traffico.
La sua immage fu lo specchio di quella del sistema, che con approccio paternalistico si prendeva cura del cittadino fino ad offrirgli una vita ordinata e misurata, sotto un controllo che non doveva essere percepito come oppressivo.
Erano gli anni in cui la Jugoslavia si apriva verso l’esterno e Bulj, nella sua divisa bianca come di bianco si vestiva spesso il maresciallo, rappresentava l’immagine di un paese stimato all’estero che mostrava il volto bonario del potere.
Il decennio successivo, nel 1980 si aprì in tutt’altra atmosfera, con la morte di Tito a 88 anni di età, che gettò una luce spettrale nel paese.
Nello stesso 1980, a poco più di 40 anni, Bulj venne pensionato, si dice – come capita a molte star – a causa di problemi con l’alcool.
Tenne per molti anni un chiosco e fece anche il parcheggiatore, lontano ormai dalla divisa bianca immacolata. Che in una Belgrado dove il traffico diventava sempre più caotico e le facciate sempre più grigie sarebbe stata un pugno nell’occhio.