Sardegna, antimilitarismo in movimento

 

Tra i manifestanti a Decimomannu, per scoprire le ragioni di un movimento ancora vivo

di Patrizia Riso, da Cagliari

È una delle prime cose che ho notato arrivata a Cagliari, è scritto sui muri della città e i muri, si sa, parlano di quello che decide la gente. In Sardegna la gente dice “A foras sa NATO de sa Sardinia”: “fuori la Nato dalla Sardegna” oppure, semplicemente, “a foras”, con accanto il simbolo della tenaglia che taglia le reti. O ancora il più sintetico e italiano: “NO BASI”. Mi chiedo da subito il perché di questa diffusione. Il movimento antimilitarista c’è in tutta Italia, così come le basi militari, cosa succede di diverso in Sardegna? Come facevo a non sapere che il 60% delle servitù militari in Italia si trovano sulI’isola famosa per le sue affascinanti spiagge? Come facevo a non conoscere il movimento antimilitarista sardo e la sua storia? Bisogna rimediare a questa mancanza. Ripartiamo dalle basi del perché si dice a gran voce “No basi”.

Come si può leggere dal sito della Regione, la storia delle servitù militari in Sardegna ha diverse tappe. Si sa che dopo la seconda guerra mondiale l’alleanza con gli Stati Uniti e l’adesione alla NATO hanno militarizzato i territori degli alleati. Così, semplicemente, dagli anni ‘50, l’isola viene scelta come piattaforma addestrativa ideale e vengono strutturati i tre poligoni di tiro di Capo Teulada, Salto di Quirra e Capo Frasca. Quest’ultimo collegato all’Aeroporto di Decimomannu. Nel 1972 nasce ufficialmente anche la base missilistica e militare de La Maddalena, chiusa però nel 2008. L’insieme delle basi forma una struttura a croce che attraversa la regione secondo un piano strutturato. Perché le basi militari non sono bene accette dalla popolazione locale? Immaginate che nella regione dove vivete vengano occupati circa 35.000 ettari di terreno per permettere alle forze militari di rilasciare sui territori sostanze radioattive come ad esempio il Torio 232 e altri metalli pesanti anche in zone pescose o ricche di terreni agricoli o, semplicemente, di persone.

È vero, qualcuno trova lavoro a causa della presenza delle basi, ma se alcuni singoli ci guadagnano nel breve termine, qual è il prezzo da pagare per la collettività e per il futuro? La “sindrome di Quirra” nasce a causa del continuo ammalarsi di cancro da parte dei cittadini vicini al poligono sperimentale. Per le sue dimensioni e conformazioni si presta cioè alla sperimentazione di qualsiasi prodotto civile o bellico. Le denunce dei sindaci hanno portato a una legge volta a tutelare le regioni maggiormente oberate da servitù militari come la Sardegna (seguita dal Friuli che ne ospita il 31%). Il contributo erogato viene utilizzato “per la realizzazione di opere pubbliche e servizi sociali laddove le esigenze militari incidono maggiormente sull’uso del territorio e sui programmi di sviluppo economico e sociale”. Basi e poligoni vengono anche affittati dai privati, ma viene comunque da chiedersi se, anche a livello economico, allo stato italiano questi giochi di guerra convengano davvero.

Un esempio pratico è la situazione dei pescatori che lavorano nei dintorni del poligono di Capo Frasca. Alcune aree destinate all’attività di pesca sono dichiarate interdette a livello temporaneo o permanente, e l’attività di pesca viene bloccata durante le esercitazioni. Non a caso i pescatori manifestano spesso per bloccare le esercitazioni e rinegoziare le condizioni, come ad esempio che le zone interdette vengano riperimetrate, gli orari delle esercitazioni compressi il più possibile per non limitare l’attività di pesca, e le aree dove ci sono mine e siluri bonificate.

Scopro tutti questi aspetti come pezzettini di un puzzle che compone un variegato movimento antimilitarista che va da chi lotta a tutto tondo per smilitarizzare l’isola, passa per i pescatori e i sindaci e arriva al contadino che dal suo trattore augura ai manifestanti buona fortuna.

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Il 10 ottobre 2016 La rete No Basi (né qui né altrove) ha infatti organizzato un corteo diretto all’aeroporto militare di Decimomannu. Ci sono manifestanti da tutta Italia, qualche sardo rientrato apposta dal continente per partecipare alla manifestazione, gente come me che vuole capire meglio qualcosa in più di questa faccia, comprensibilmente arrabbiata, della Sardegna. C’è una imbarazzante sproporzione tra manifestanti e forze dell’ordine: in media c’è un poliziotto a persona, sette camionette e svariate automobili tra Guardia di Finanza e Polizia, oltre l’elicottero impegnato a sorvolare dall’inizio del corteo. Sembra però che molti attivisti siano più arrabbiati con i giornalisti che con il resto dello spiegamento armato. Hanno ragione, i media mainstream fanno fatica a raccontare il movimento onestamente e, d’altronde, la rete non rilascia interviste richiedendo di non fare foto e video (c’è già la Digos che riprende tutto come in ogni manifestazione), ma la richiesta viene ignorata. I giornalisti stanno fuori dal corteo con i caschi blu e, non a caso, la giornata viene raccontata così da l’Unione Sarda (nel mio caso dico la verità: “Sono freelance non voglio immortalare nessun volto” ndr). Intorno all’una arriviamo nei pressi della base di Decimomannu e non succede nulla che abbia lontanamente a che vedere con la violenza. Le pietre vengono usate per scandire il ritmo degli slogan e alcuni simpatici coretti tra manifestanti. Dopo poche ore passate lì, attorniati da poliziotti più o meno annoiati, si rientra a San Sperate. L’obiettivo della giornata è stato in parte raggiunto: le esercitazioni sono state bloccate per qualche ora, per poi riprendere, nel disappunto di qualcuno, intorno alle cinque del pomeriggio.

È vero, c’erano poche persone a manifestare in quella calda giornata d’ottobre, ma era un lunedì mattina e le manifestazioni sono tante nel corso dell’anno perché seguono più o meno il calendario delle esercitazioni militari. A settembre 2014 si era verificato un incendio nel poligono di tiro di Capo Frasca, con rischio di coinvolgere abitazioni di civili circostanti. Il 13 settembre la manifestazione organizzata dai gruppi antimilitaristi riesce a coinvolgere circa 13.000 persone. In quella giornata alcuni attivisti sono riusciti a entrare nel poligono. In generale le tattiche di lotta si basano sul rallentamento dei convogli militari che arrivano dai porti (come quello di Sant’Antioco) alle basi e sul blocco delle esercitazioni.

Negli ultimi anni il movimento antimilitarista in Sardegna, si ripropone in maniera più strutturata senza dimenticare il passato. Nel dopoguerra a Quirra Pertenia i contadini protestavano contro l’esproprio delle terre causato dalle basi militari. Nel 1969, quando a Pratobello si voleva costruire un altro poligono, la popolazione insorse, occupando i territori e in pochi giorni di lotta il piano venne abbandonato. In seguito all’operazione militare di controllo Forza Paris nel 1992 (giustificata per ragioni di ordine pubblico durante il periodo dei sequestri), si verificò una serie di violenze e ostilità da parte della cittadinanza sarda ai danni dei militari. C’era e c’è anche la lotta dei gruppi pacifisti cristiani e degli attivisti del Servizio Civile Internazionale, impegnati a resistere costruendo alternative con i campi di volontariato.

Il movimento antimilitarista sardo, in tutte le sue componenti, rappresenta una forma di attivismo volto a difendere i territori locali ponendosi in un’ottica più ampia. Perché è vero che si lotta in Sardegna, ma l’antimilitarismo si pone da sempre come movimento globale.

Il corteo del 10 ottobre 2016 a Decimomannu concludeva in realtà quattro giorni di campeggio, nel giardino megalitico di San Sperate, mentre a settembre c’era stato un altro campeggio A ForasCamp a Lanusei, in provincia di Nuoro. Informarsi, dedicare tempo ad organizzare campeggi e cortei, far circolare informazioni, affrontare problemi legali, sgolarsi ad un megafono per raccontare cosa provocano le basi militari, ha un costo che non tutti riescono o vogliono assumere. Anche perché, finito il corteo, la base resta lì, e bisogna ricominciare. Ma allora, a che serve manifestare? In corteo ricevo questa risposta definitiva “Bisogna continuare a manifestare per far capire che il movimento è ancora attivo, che ci siamo. Se si pensa che non ha senso, siamo già sconfitti in partenza”.