La lezione spagnola

Il PSOE, partito socialista, ha deciso che si asterrà per consentire il via libera a un governo del Partido popular di Mariano Rajoy. Una decisione dei vertici che hanno ignorato le richieste dei militanti.

di Angelo Miotto
@angelomiotto

Il centro destra di Mariano Rajoy governerà, grazie ai socialisti. La Spagna ha scongiurato nuove elezioni. La lezione spagnola è paradigmatica, unica per molti versi, illuminante dello stato della democrazia rappresentativa.

L’ha detto la sindaca di Madrid, Manuela Carmena, con parole davvero chiare: il tempo della democrazia rappresentativa sta finendo. Il sistema partito è in crisi, dice la sindaca che aggiunge: “Me da mucho miedo que esa crisis profunda pueda generar mucha desesperanza si no hay líderes políticos extraordinariamente inteligentes y que podamos vivir momentos difíciles. El futuro de la izquierda tiene que tener una consideración muy fuerte de las personalidades individuales de los colectivos. Una especie de masa que una“. Traducendo veloci; paura per mancanza di speranze senza leader politici estremamente intelligenti, fitiro della sinistra nelle personalità individuali della massa.

Ne abbiamo scritto qui quando abbiamo affrontato il tema della pre-politica. In Spagna siamo con i piedi ben dentro il piatto della politica e di scossoni che si ripercuotono in un sistema elettorale ben abituato a un bipartitismo andato in frantumi. Si fa un gran parlare di Casta e il termine, a dir la verità, ha finito per essere piuttosto indigesto, perché rappresenta a varie latitudini anche un certo qualunquismo del mugugno costante e stereotipato.

Eppure quanto accaduto nel comitato federale del Psoe, con 137 voti a favore e 96 contrari è qualcosa di estremamente significativo: i vertici di un partito, delegati dai propri militanti in quelle condizioni di potere e amministrazione, hanno deciso in maniera ben diversa dal sentimento della base invocando l’eterno scudo della ‘responsabilòità’ che si può tranquillamente e più linearmente leggere come una sorta di difesa di ufficio di una condizione.

La condizione dei grandi partiti sotto assedio, quella di una mancanza di abitudine a fronteggiare una novità, rifondare i cattivi uffici che hanno scavato voragini nella credibilità pubblica, dismettere abiti tradizionali e impoverati per calzare nuovamente le suole del quotidiano.

La linea che ha portato il Psoe a spaccarsi e far fuori l’ormai ex segretario generale Pedro Sanchez è quella di andare ad astenersi aprendo le porti a Mariano Rajoy, che non ha pochi problemi inc asa fra corruzione e personalismi tattici, ma che in questa tappa spagnola si è goduto lo spettacolo senza dover muovere un dito.

Il secondo punto interessante di questa lezione è che il sistema elettorale diventa in tempi di mobilità politica, mobilità che scuote le fondamenta, una variabile e non una regola utile per portare l’ordine di un assetto radicato. Con un proporzionale e legge dei resti (metodo d’Hont) la Spagna per due (ma pronti a scommettere che sarebbe successo ancora) votazioni ha riproposto uno schema di ingovernabilità. Colpa della legge? No. Colpa delle rigidità dei partiti sui programmi, di fronte a questioni difficili da ingoiare per i partiti artefici della disgraziata transizione spagnola: diritto a decidere nei territori che lo rivendicano, modello di Stato, referendum. Su questo le coalizioni possibili dopo il voto si sono sempre dissolte molto più che sui temi della crisi e dell’economia (anche su quelli, ma meno). Ecco una crepa antica, e anacronistica, che non possimao imputare al sistema elettorale.

Infine la lezione spagnola ci parla di un pensiero che non possiamo più eludere o che non possiamo liquidare nel perbenismo dell’essere o sentirsi, o vantarsi di essere, moderati nei costumi e nelle reazioni. Va affrontato alla radice, ora e non domani, il tema dell’incapacità della classe dirigente di molta politica. Non solo in Spagna, non solo negli Stati nazione, soprattutto nelle istituzioni come l’Europa.

C’è una classe dominante e non dirigente, come abbiamo scritto spesso, che occupa il vertice del potere esercitando politiche ben diverse da quello che appare essere il volere della maggioranza non della popolazione, ma di quella parte delle popolazioni che non sta subendo la regressione legata a un analfabetismo dettato dall’ipnosi di certa sottocultura capitalista o iperliberista anche nei messaggi.

Non è teoria del complotto, perché tutto è tremendamente sotto gli occhi di tutti, tutto si svolge sotto il sole. L’affidarsi spesso a grandi coalizioni, le agende degli incontri sovranazionali, le incapacità dell’essere umani di fronte alle proiezioni di voto, la spersonalizzazione continua, l’amore per i regolamenti che amano solo vocaboli spigolosi e squadrati  e che mal si attagliano alla nostra condizione mutante e indifesa. Dall’altra parte crescono, è una cosa arcinota ormai, i populismi che finiscono in fascismi di varia genìa, anche se non dichiarati tali. Perché oggi si ha più pudore di usare le parole che di compiere atti che ledono i diritti fondamentali delle persone.

La scelta, in tempi di vacche magre, su cosa fare e come reagire si dovrebbe porre in tempi un po’ più rapidi di quelli che abbiamo vissuto, perché il tema del rappresentare ed essere rappresentati attiene non più a uno svolgimento ordinato della vita della comunità, ma al sentirsi individuo che ha voce rispetto a un futuro collettivo, in cui la propria voce conta, anche perché ascoltata.
Per costruire il nuovo pensiero che superi le grandi teorie del 900 basterà, forse, iniziare dal leggere le pratiche e questa richiesta di esistere.