Di Luc e Jean-Pierre Dardenne. Con Adèle Haenel, Jérémie Renier, Olivier Gourmet, Fabrizio Rongione, Thomas Doret. Nelle sale dal 27 ottobre.
di Irene Merli
Jenny è una giovane dottoressa che sta sostituendo un medico di base nel suo ambulatorio della periferia di Liegi. Stimata, empatica, brillante, quando la incontriamo sta per trasferirsi in un importante ospedale, con un incarico di rilievo. Ma una sera, un’ora e passa dopo la chiusura dello studio, qualcuno suona alla porta.
Jenny, che stava discutendo con un tirocinante, decide di non aprire e impedisce anche al ragazzo di farlo. È tardi, lavorano da molte ore, chi li ha cercati non tiene conto della loro stanchezza… Solo che il giorno dopo alla stessa porta bussa la polizia. Lì vicino, sulle rive della Mosa, è stata trovata una ragazza morta: sul suo corpo non c’erano né documenti né cellulare e i poliziotti cercano la registrazione del video di sorveglianza dell’ambulatorio.
Il giorno dopo, Jenny saprà da loro che la poveretta era la persona a cui non aveva aperto: nel video si vede benissimo una ragazza nera molto giovane, spaventata, che suona agitata e poi scappa.
La dottoressa rimane sconvolta. Come non sentirsi responsabile? e avesse aperto la ragazza sarebbe ancora viva. L’unico modo di risarcirla a questo punto è scoprire come si chiamava. La sua famiglia, i suoi amici devono sapere cos’è successo: magari c’è qualcuno che l’aspetta, che non vuole farla finire in una tomba anonima, senza nessuno a piangerla. E comunque, anche nel peggiore dei casi, la giovane morta ha diritto ad avere almeno il nome sulla lapide.
Così Jenny cambia di colpo la direzione della sua vita: butta a mare l’ottima proposta di lavoro che aveva già accettato e decide di continuare a fare il medico di base in quella banlieue, perché le sembra l’unico modo per scoprire l’identità della ragazza sconosciuta. Si trasferisce persino a vivere nell’ambulatorio, e a ogni paziente, dopo le visite in studio o a domicilio, fa vedere la foto della giovane che ha sul cellulare.
Jenny ha una grande capacità di ascolto dei corpi e delle parole dei suoi malati e mentre cerca di aiutarli, continua le sue indagini, determinata, paziente, incurante dei pericoli.
La sua è un’ossessione morale, che la porta a mettere tutta se stessa nella ricerca della verità su quella povera vita stroncata. E la giovane dottoressa dal viso fresco e innocente non si sottrae a sacrifici e rischi perché, come i classici personaggi dardenniani è calata nella straordinarietà del reale quotidiano, pieno di miserie di ogni tipo, da quelle dettate dall’esclusione sociali a quelle morali, personali.
Jenny, la dottoressa in cerca di un’identità accuratamente nascosta da una serie di rimorsi incrociati, è interpretata da un’ottima Adèle Haenel, che riesce a farne un’eroina dimessa, senza eccessi, di cui non sappiamo nulla oltre quello che le vediamo fare. La sua recitazione è improntata ai criteri dell’invisibilità, secondo i canoni dei due registi per cui contano soprattutto il corpo, l’ascolto, le azioni dei personaggi. quanto ai nostri amati Dardenne, hanno firmato un’opera tesa, essenziale, che tramortisce per il carico di drammaticità sommessa, mai gridata, ma intensa.
E con questa storia ci spingono a ricordarci che dietro i numeri dei morti senza nome ci sono individui, storie, famiglie, speranze. Restiamo umani, sembrano dire attraverso “La ragazza senza nome”: non permettiamo che le persone muoiano prive di identità e scompaiano dalla nostra memoria, annegate nel gelido mare delle statistiche.