Chernobyl in Amazzonia

Oltre 2.800 morti, 450 mila ettari contaminati e due popolazioni indigene estinte. La catastrofe ambientale causata dalla multinazionale Chevron-Texaco in Ecuador è considerata oggi il peggior disastro petrolifero

di Alice Facchini

Più di 2.800 morti, 450 mila ettari di Amazzonia contaminati e due popolazioni indigene completamente estinte. La catastrofe ambientale causata dalla multinazionale Chevron-Texaco in Ecuador è considerata oggi il peggior disastro petrolifero del mondo, con 650mila barili di greggio sversati nella foresta e nei fiumi e un totale di 30mila persone colpite. Il 3 di novembre il processo contro la Chevron compie 23 anni, ma ancora le vittime non hanno ottenuto giustizia

Oggi, 3 novembre 2016, sono esattamente 23 anni che la causa contro la Chevron-Texaco va avanti, facendone così il più lungo processo in materia ambientale della storia. Eppure resta ancora una catastrofe sconosciuta (o quasi) quella avvenuta nell’Amazzonia ecuadoriana.

Quando si parla di disastri ambientali, si pensa subito allo sversamento massiccio di petrolio nelle acque del Golfo del Messico, alle scorie nucleari di Fukushima o a quelle di Chernobyl. In pochi conoscono la storia della multinazionale statunitense Chevron Texaco che, dal 1964 al 1990, ha inquinato una delle zone, l’Amazzonia ecuadoriana, con la maggior biodiversità al mondo, provocando 2.800 decessi e colpendo un totale di 30mila persone.

Tutto ha avuto inizio nel 1964, quando la Texaco (che nel 2001 viene acquisita dalla Chevron) ottenne una concessione per l’esplorazione alla ricerca di petrolio in Ecuador. È così che iniziò lo sfruttamento di una terra fino ad allora incontaminata: l’azienda costruì strade, trasportò macchinari, indusse esplosioni e con sensori captò sottoterra dove si muoveva l’oro nero.

Il 16 febbraio 1967 venne perforato il primo pozzo, Lago 1, vicino alla città di Lago Agrio, a pochi chilometri dal confine nord con la Colombia. Vicino al pozzo furono costruite alcune piscine di scarico, dove si raccoglieva il petrolio greggio e l’acqua di formazione, ossia l’acqua altamente tossica che esce da sottoterra insieme al petrolio e che contiene metalli pesanti e elementi radioattivi.

Vennero costruite anche stazioni di separazione, per dividere il petrolio puro dagli elementi superflui: ulteriore acqua di formazione e gas tossici, che venivano bruciati in loco attraverso inceneritori. Negli anni a venire, la Texaco perforò un totale di 356 pozzi e costruì 22 stazioni di separazione e 880 piscine di scarico nelle province amazzoniche di Orellana e Sucumbios.

Fin qui nulla di irregolare: per quanto invasiva e impattante, questa è la procedura standard che si utilizza per l’estrazione del petrolio. Il disastro ambientale derivò invece dal modo in cui questa stessa procedura fu attuata.

Negli anni dal 1964 al 1990, la Texaco ha sfruttato questi pozzi senza alcun riguardo nei confronti dell’ambiente circostante, riversando nei fiumi e nella foresta un totale di 60 miliardi di litri d’acqua tossica e 650mila barili di greggio, arrivando a contaminare anche le falde acquifere. Non è stato adottato nessun sistema per reimmettere l’acqua di formazione e gli elementi inquinanti nel sottosuolo, né sono state installate membrane di protezione nelle piscine di scarico.

Il risultato è stato disastroso: gli elementi tossici sono penetrati ovunque, nella terra, nell’acqua e persino nell’aria, per via degli inceneritori. Le donne hanno iniziato ad avere frequenti aborti spontanei e gli abitanti hanno cominciato a morire di malattie prima sconosciute: l’influenza, il morbillo, ma soprattutto il cancro.

Ci si ammala soprattutto di tumore all’utero, seguito da quello allo stomaco e al fegato. La possibilità di contrarre il cancro in questa zona è tre volte superiore alla media nazionale. Si calcola che finora siano stati 2.800 i morti a causa dell’inquinamento petrolifero, 30mila le persone colpite direttamente dalla catastrofe e milioni quelle danneggiate indirettamente: l’acqua dei fiumi inquinati finiva infatti nel Rio Napo, da lì andava in Perù, poi in Brasile e infine sfociava nell’Oceano Atlantico.

“Sono nato nel 1973, a 200 metri dal pozzo Lago 2 – racconta Donald Moncayo, membro dell’Unione delle Vittime di Texaco (UDAPT) e rappresentante del settore Lago Agrio –. In quegli anni il petrolio era ovunque. La Texaco gettava il greggio nelle strade di terra che portavano ai pozzi per evitare che si alzasse la polvere quando circolavano i camion. Quando pioveva, il petrolio penetrava nella terra e finiva nelle falde acquifere”.

Donald Moncayo

Donald Moncayo

Nel momento in cui la Texaco iniziò ad operare, nelle province interessate di Orellana e Sucumbios abitavano otto popolazioni indigene originarie che vivevano di caccia, pesca, agricoltura. A causa dell’inquinamento, però, gli animali vennero decimati e la terra non produceva più come prima.

Il fiume era il centro delle attività quotidiane: lì si lavavano i vestiti e i piatti, ci si bagnava e si prendeva l’acqua da bere. Non c’erano alternative, quella era l’unica fonte di acqua. Così le persone si avvelenavano, giorno dopo giorno.

“La Texaco usava due strategie per tenere buona la gente – continua Donald Moncayo – si serviva dell’esercito per reprimere le ribellioni e i malumori e faceva credere alle persone che il petrolio facesse bene. In quegli anni, gli abitanti erano convinti che il petrolio fosse un medicinale. Se lo spalmavano sulla pelle in caso di dolori articolari o come trattamento di bellezza, lo tenevano addosso tutta la notte e poi si lavavano con la benzina. A volte la pelle veniva via a pezzi”.

La tradizione indigena venne distrutta anche dall’arrivo di uno stile di vita occidentale, che si impose con nuovi vestiti, sigarette, bevande alcoliche e prostitute, che lavoravano nella città di Lago Agrio e dintorni. Nel giro di poco più di 20 anni, due popolazioni indigene (i Teetetes e i Sansahuaris) scomparirono completamente, mentre le altre furono decimate e oggi rischiano l’estinzione: i Cofanes passarono da 4.800 unità nel 1964 a 700 nel 1990, i Sionas da 2000 a 300, e così via anche per i popoli Secoya, Kitchwa, Waorani e Shuar. Molti di loro furono cacciati dalla loro terra e dovettero emigrare.

“Il calcolo dei morti è molto approssimativo e non tiene conto di tanti decessi avvenuti per via indiretta per colpa del petrolio – racconta Donald Moncayo –. Mia madre, ad esempio, aveva un ascesso nella pancia e si stava curando. Un giorno è andata al fiume a lavare i vestiti e l’acqua le ha toccato la ferita. Le faceva così male che non poteva neanche camminare, l’abbiamo portata a casa in spalla. La ferita è diventata rossa, viola, blu, nera… dopo tre ore siamo andati all’ospedale, dove la diagnosi del medico è stata: avvelenamento. Le usciva schiuma dalla bocca. Il giorno dopo è morta”.

Quelli che oggi sono rimasti nelle zone contaminate sanno che l’acqua del fiume è tossica, ma spesso continuano a usarla perché non hanno altra scelta.

“Quando possono scavano pozzi – continua Moncayo – anche se non si tratta di una vera soluzione visto che il petrolio è filtrato in profondità. Per chi se lo può permettere, l’unica opzione resta comprare delle taniche che filtrino l’acqua piovana, ma anche così c’è un pericolo: a poche centinaia di metri dalle case si trovano gli inceneritori che ancora oggi bruciano i gas derivati dall’estrazione del petrolio. Insomma, se si potesse in questa zona non si dovrebbe neanche respirare”.

Nel 1990 lo Stato ecuadoriano non rinnova il contratto con la Texaco e rileva le infrastrutture per l’estrazione del petrolio attraverso la compagnia statale PetroEcuador. Fino al 1992, la Texaco resta socia minoritaria, poi si ritira definitivamente dal territorio.

IL PROCESSO

È nei primi anni Novanta che le vittime prendono coscienza del danno causato dalla Texaco e si preparano a farle causa. Esattamente 23 anni fa, il 3 novembre 1993, comincia il processo nello stato di New York: è solo l’inizio di una controversia non ancora finita, che vede una piccola organizzazione di cittadini confrontarsi con una multinazionale che guadagna in media 27 miliardi di dollari l’anno e che dispone di una squadra di più di 2mila avvocati solo per questo processo.

Per difendersi, la Texaco non nega di aver inquinato le zone dell’Amazzonia ecuadoriana dove si trovano i pozzi, ma afferma che in quegli anni non disponeva della tecnologia in grado di proteggere l’ambiente.

Ci sono però le prove che quella stessa tecnologia di reincanalamento dell’acqua di formazione nel sottosuolo fu usata dalla Texaco negli Stati Uniti già dagli anni Sessanta. La verità è che reimmettere l’acqua di formazione nel sottosuolo aveva un costo (3 dollari ogni 200 litri): la Texaco ha quindi preferito risparmiare (e inquinare) piuttosto che seguire le procedure.

Trattandosi in tutto di 60 miliardi di litri di acqua di formazione, si stima che il risparmio per l’azienda sia stato di circa 900 milioni di dollari.

Dopo che il processo ebbe inizio a New York, la Texaco fece di tutto per spostarlo in una corte ecuadoriana. Al tempo la compagnia petrolifera aveva grande influenza sul governo, sull’esercito e anche sul sistema giudiziario del Paese, ed era convinta che in Ecuador la vittoria sarebbe stata assicurata.

Nel frattempo, nel 1995 venne firmato un accordo tra la Texaco e lo Stato ecuadoriano che liberò la compagnia da ogni responsabilità, in cambio della bonifica dei terreni inquinati dal petrolio. Questo accordo ha impedito allo Stato di fare causa alla Texaco, ma ha lasciato la possibilità di farlo a terzi: ecco perché l’associazione delle vittime ha potuto continuare il processo, in quanto giudizio privato.

Nel 1995, quindi, la Texaco è stata obbligata (almeno formalmente) a rimediare al danno ambientale commesso: la presunta “pulizia”, però, è stata effettuata solo su 161 piscine di scarico rispetto alle 880 totali, ed è consistita semplicemente nell’averle ricoperte con 50 centimetri di terra. Ancora oggi, quando ci si reca nelle piscine bonificate nel ‘95, si trova petrolio puro.

“È sufficiente scavare un po’”, afferma Donald Moncayo mostrando una zolla di terra sporca di petrolio. L’odore, simile a quello di benzina, è molto forte. “Quello che hanno fatto è stato solo portare terra, metterla sopra e coprire. Pensavano che fosse un crimine perfetto, che non si sarebbe mai scoperto: in realtà si scopre molto facilmente”.

Nel 2002 la seconda Corte di New York, dando ragione alla Texaco, ha rinviato il caso alla giustizia ecuadoriana. L’anno successivo è stato aperto il processo in Ecuador e il 14 febbraio del 2011 è arrivata la prima sentenza da parte della Corte provinciale di giustizia di Sucumbius: la Chevron è stata condannata a versare 8,5 miliardi di dollari per danni ecologici, più un dieci percento per i danni provocati alle comunità colpite.

Il 3 gennaio 2012 la sentenza viene ratificata in appello. Il 13 novembre 2013 arriva la storica sentenza della Corte Nacional de Justicia: la Chevron-Texaco viene condannata a pagare 9,5 miliardi di dollari per crimini ambientali. La Chevron-Texaco però non molla e si appella alla Corte Constitucional de Justicia, il quarto e ultimo grado di giudizio in Ecuador. “È da tre anni che aspettiamo il giudizio definitivo della Corte, il processo per ora è bloccato” spiega Moncayo.

Anche in caso di condanna, comunque, la Chevron non pagherà per i suoi crimini: l’azienda ha infatti venduto tutte le infrastrutture e le azioni che possedeva in Ecuador per evitarne il sequestro.

Per riuscire a ottenere il risarcimento, allora, l’Unione delle Vittime della Texaco ha deciso di procedere con l’omologazione della sentenza ecuadoriana in altri Paesi dove la multinazionale presenta degli utili: in questo momento il caso è all’analisi delle Corti di Canada, Brasile e Argentina. Solo così sarà possibile compensare i danni causati da Texaco.

“Anche se pagassero tutto quello che c’è da pagare fino all’ultimo centesimo, sarà comunque difficile ripulire la nostra terra ormai impregnata di petrolio – conclude Donald Moncayo – Fino a che non otterremo giustizia continueremo a portare avanti la lotta: se vinceremo questo processo non sarà solo una vittoria delle vittime, ma anche dell’Ecuador, dell’Amazzonia e del mondo intero. Quando qualcuno mi chiede se ho paura, rispondo: di morire? No, so già che prima o poi morirò di cancro, ho già dei problemi allo stomaco. Però ho anche una bambina di 6 anni, e questa battaglia contro la Chevron la faccio per lei. Non ho soldi come loro, l’unica arma con cui posso combattere è la verità”.

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