Ghidoli

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Con questo racconto di Federico Gaudimundo inizia Pesci rossi nelle orecchie, una rubrica di racconti in cui scriverà anche Gaia Grassi. Li ringraziamo entrambi, benvenuti a bordo. Buona lettura.


Un racconto
di Federico Gaudimundo

Si può imparare qualcosa perché qualcuno te lo insegna, si può imparare qualcosa per deduzione, si impara per esperienza e ogni tanto per differenza.

Da mio padre, dai padri spesso lo si fa, ho imparato in tutti questi modi.

Erano gli Anni 80, circa. Io avevo una decina d’anni e mio papà gli anni che ho io adesso.
Anno più, anno meno.

Frequentavamo, tutta la famiglia, un circolo canottieri a Milano. La “Canottieri Milano”, appunto.
Ma non perché amassimo il canottaggio. Stavamo lì per il tennis.

Il tennis è sempre stato lo sport più amato da mio padre. Certo, l’Inter è una passione di famiglia inestirpabile. Ma lo sport più praticato in casa è sempre stato il tennis. E quella passione ce l’ha instillata nostro padre.

Dopo tanti anni ne capisco anche il motivo. Il tennis è uno sport dove la tecnica conta fino a un certo punto. Il tennis è una battaglia che non puoi vincere solo con la sapienza. Devi mettere in gioco la sincronia tra la tua anima, il tuo cervello e la tua pancia. E renderla perfetta.
Il cervello è al servizio del resto. Deve attingere ai suoi automatismi, lavorare il meno possibile. Più lavora e più inserisce sabbia nell’ingranaggio. Basta un pensiero fuori posto per perdere una partita già vinta. Un dubbio, un’ipotesi, una domanda mal riposta. Devi far comandare l’istinto e quella sensazione che arriva e devi cogliere senza farti vedere. E devi stare sempre al limite. Non puoi permetterti di tirare il fiato nemmeno per un game. E soprattutto devi saper riconoscere il momento decisivo.
In ogni caso non devi ringraziare nessuno se vinci, non devi rimproverare nessuno se perdi. Eccetto te stesso.
Questo mix di istinti primordiali e individualismo feroce era perfetto per mio padre. Da sempre abituato a non far conto su nessun altro, eccetto se stesso, feroce nella determinazione e viscerale nelle scelte. Si dice, spesso banalmente, che lo sport è potente metafora della vita; beh, il tennis e le migliaia di partite che ha giocato sono decisamente metafora della sua vita, come una plastica rappresentazione.
E in questa rappresentazione, in questa lotta bisogna sempre fare i conti, oltre che con sé stessi anche con l’avversario.
Che è lì, dall’altra parte della rete, a combattere la sua personale battaglia con i propri limiti e a porti costantemente davanti ai tuoi.

Bene, in quell’estate degli anni ’80 all’annuale torneo sociale della Canottieri Milano, l’avversario dall’altra parte della rete era Ghidoli.

Ghidoli era l’over 40 più forte del club. Incontrarlo ai quarti di finale non era stata certo una fortuna. Molte volte Ghidoli e papà si erano incontrati. E 9 volte su 10 aveva vinto Ghidoli.
Era un uomo piacente, snello con un sorriso leggermente compiaciuto. Brizzolato, non particolarmente brillante, ma molto elegante. Vestiva sempre in bianco con un completino “Fila” che allora andava per la maggiore. Era lo sponsor di Bjorn Borg, il campionissimo svedese. Ghidoli giocava anche con la Donnay di Borg.
Borg era il numero uno al mondo, famoso per il suo gioco regolare, per la sua bellezza nordica, ma soprattutto per il suo carattere glaciale. Mai una parola fuori posto, mai un gesto scomposto.
Ghidoli era un Borg del circolo sportivo.
Corretto, composto, con la signorilità dei vincitori. Quella che costa poco e rende molto.
Capace sempre di dirti bravo, per un bel punto subito. Con la consapevolezza che alla fine la partita, l’avrebbe vinta lui.

Anche in quell’occasione Ghidoli si era presentato con il suo completino immacolato.
Mio papà non amava le tenute da tennis. Certo, le scarpe e i pantaloncini erano per forza quelli adatti al gioco. Ma le magliette no. Indossava spesso, anzi sempre, delle magliette colorate che la maggior parte delle volte erano dell’azienda per cui lavorava. Ne ha cambiate molte: per lui era il modo per fare carriera velocemente. Per cui ne aveva tante e di diversi colori.

Rappresentavano benissimo l’artigianalità del suo tennis da autodidatta, imparato in tempi in cui gli operai (quale lui era quando ha iniziato) a tennis non ci giocavano. (Lui invece per qualche oscuro motivo si era appassionato e giocava spesso con i proprietari o con i dirigenti delle aziende in cui lavorava. Spesso perdendo, senza esagerare con l’agonismo. )

Il suo era un tennis sbilenco e creativo. Fatto di incongruenze. Dritti in top-spin, rovesci molli e tagliati, cambi di ritmo. E poi un colpo magico: la smorzata.
La smorzata di papà era pura poesia. La faceva sia di dritto sia di rovescio e la “mascherava” fino all’ultimo momento.

A volte, magari dopo uno scambio “tirato”, come un mago col suo coniglio estraeva dal cilindro questa palla corta che moriva inesorabilmente al di là della rete. E se il malcapitato di turno provava con uno sforzo pazzesco ad andare a prenderla, ecco che lui rispondeva con un pallonetto.
E se pure perdeva il punto, allo scambio dopo, stai sicuro che ti piazzava un’altra smorzata spacca-gambe.
A volte la usava in risposta al servizio, un colpo praticamente impossibile.
Eppure lui la piazzava sempre in un angolo. Vede gli angoli nascosti come nessuno, mio padre.

Le partite che ha vinto in questo modo, tagliando a poco a poco gambe ed energie dell’avversario a furia di palle corte, non saprei nemmeno contarle.

Ghidoli conosceva benissimo il gioco di mio padre. E sapeva altrettanto bene come disinnescarlo.
Aumentare la velocità di palla, non farsi irretire dai cambi di ritmo, perdere pure qualche punto, ma senza lasciarsi trascinare nel “giochino”. Sapeva in ogni caso di dover soffrire.

E così è stato in effetti. Papà conosceva bene Ghidoli e cambiò le carte in tavola. Spinse subito come un matto. Nessuna smorzata. Un gioco d’attacco fatto di servizi, dritti violenti e attacchi in back con entrambi i fondamentali.
Battere Ghidoli con le sue stesse armi. Quello era il piano. Che per un set e mezzo funzionò a meraviglia. Ma quello non era il tennis di papà. Troppo dispendioso per un fisico e soprattutto una vita non propriamente da atleta.

Così piano piano Ghidoli tornò padrone della partita vincendo un secondo set anche più tirato.
E presentandosi all’inizio del terzo decisamente da favorito. Aveva più colpi e speso meno a livello fisico e soprattutto mentale.
Papà allora decise di tornare al copione conosciuto. “Affettare” ogni palla, rallentare il gioco.
Lo scontro da quel momento è diventato epico. Ghidoli spingeva forte e papà le rincorreva tutte e, non appena ne aveva la possibilità, piazzava una smorzata.

Fuori dal campo intanto, il match così combattuto, aveva interessato molti più spettatori del normale, per una partita di quarti di finale del torneo sociale over 40.

Gli spettatori di tennis da circolo sono animali strani. Spesso o sempre sono tennisti come i contendenti in campo, guardano le partite distrattamente, con l’aria sempre di quelli che saprebbero fare meglio.

La cosa che fa più irritare un giocatore di club mentre sta giocando è percepire con la coda dell’occhio due spettatori occasionali che osservano uno scambio interessati e vederli andare via al primo errore, magari scuotendo la testa. Poco importa se magari stai giocando la partita migliore della tua vita e quello è il primo errore dopo una serie di punti vincenti.
Loro ti stanno giudicando, o almeno così sembra, da quell’unico punto giocato male. E ti fanno capire che non meriti il loro tempo.

Ghidoli e mio padre però il tempo degli spettatori fuori se lo stavano meritando tutto e si susseguivano gli applausi e i “bravo”.
Soprattutto per Ghidoli.
Ogni tanto magari si sentiva un “bravi tutti e due”, ma era sempre dopo un punto combattuto.
Vinto da Ghidoli.

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Che, con la sua educazione e compostezza sul campo e il suo curriculum sportivo aveva tutto per essere amato dagli altri soci del circolo.
Era facile e producente tifare per Ghidoli.
Era difficile invece che tifassero per mio papà.
Papà si incoraggiava da sé. “Grande palla, bravo Paolo!” Si diceva quando metteva a segno un punto importante o particolarmente bello. E più si incoraggiava e meglio giocava.
Un uomo che aveva ha dovuto sempre cavarsela da solo era abituato a farlo.
Spesso lo urlava. Questo non piaceva al composto ed educato pubblico dei club e spesso veniva etichettato come Baùscia (in dialetto milanese significa sbruffone). Ma quegli incitamenti erano un discorso totalmente personale. Intimo. Niente di esibito in realtà.

In quella occasione però il pubblico si divise. Soprattutto perché a un certo punto, durante uno scambio mio padre emise un urlo di dolore. Come una schioppettata. Erano crampi. Oggi che il salutismo è un valore sappiamo bene che l’idratazione costante è importante per evitare i crampi.

Allora, in un’epoca in cui il concetto di immagine era molto slegato dal concetto di salute, non era così chiaro. Quindi, durante la partita non fece troppo caso a bere molto. Dunque ho visto con i miei occhi mio papà trascinarsi a bordo campo, urlando di dolore con una gamba totalmente rigida. Ghidoli si preoccupò subito. Andò immediatamente a sincerarsi delle condizioni di mio padre, che seduto a bordo campo si tirava la gamba per sciogliere i muscoli. Poi si avviò verso la sedia su cui era appoggiata la sua borsa e fece per mettere via le sue cose.

“Guarda che non mi ritiro.”
“Non puoi giocare così Paolo”.
“Io non mi ritiro.”
“Siamo fermi ormai da un po’ di tempo: sarebbe anche contro il regolamento.”
“Io non mi ritiro. Tu pensa a giocare.”

Tornarono in campo. Ghidoli era infastidito. Papà zoppicava. Ma giocava.
Ogni palla a quel punto diventò una smorzata, un pallonetto un gioco di prestigio.
E ogni punto un urlo. Anzi due: uno di sofferenza e uno di incitamento.

Ghidoli perse tutta la sua compostezza. Protestava, era livido di rabbia. Cercava di arruolare alla sua causa gli spettatori fuori dal campo. Papà metteva in campo tutte le sue armi. Si incitava, un po’ sfotteva, un po’ provocava. Ma soffriva, stava lì sul campo fino all’ultima goccia. Io guardavo e soffrivo con lui, fuori. Guardavo in cagnesco se qualche spettatore commentava in maniera poco lusinghiera. Papà aveva portato la partita sul proprio terreno. Quello della lotta, della grinta, della terra rossa fin dentro i pantaloncini.

Ghidoli non ci capì più niente. E perse quella partita. 7-5 al terzo. Uscì dal campo, rabbioso, senza stringere la mano a papà.
Che perse la partita successiva. Ma questo è il tennis, e questo sovente è lo sport.
Un’“impresa”, piccola o grande che sia, è difficile da replicare: non hai non hai più le energie mentali per farlo.

Io seguii quella partita dal primo all’ultimo punto, facendo un tifo tanto violento quanto silenzioso.
Tanto che ancora la ricordo.
Forse.

Purtroppo non ho imparato a essere un lottatore indomito. Papà non mi ha trasmesso quella grinta, quel furore agonistico. La ferocia animale di fronte a un obiettivo prefissato.

Avrei voluto, ma non è stato così.

Però, quando mi capita di vedere uno come lui alle prese con un Ghidoli, so da che parte stare. Sempre.

Questo ho imparato quel giorno, senza scordarmelo mai.

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