Siria, Assad e libertà. La politica in un campo profughi

Reportage dal campo profughi di Tel Abbas, Libano, dove i rifugiati siriani raccontano i loro tormenti ed esprimono le loro opinioni su una guerra che pare destinata a non finire più

di Davide Lemmi da Tel Abbas, Libano

“Ci credevamo, credevamo alle manifestazioni e al vento che si respirava durante quelle settimane, se solo avessimo saputo cosa avrebbe significato… nessuno se lo sarebbe mai potuto prefigurare”, inizia sempre così, una brezza di libertà ti accarezza il viso stanco e abituato alle violenze, provi ad afferrarla, senza però accorgerti che quel soffio era lo strascico di un ciclone. Nella tenda di Amir e Azal, nomi fittizi, persone reali, ci accomodiamo sui materassi di gommapiuma appoggiati ai lati della struttura. È pomeriggio a Tel Abbas, sono ormai 36 ore che viviamo le difficili e complicate dinamiche del campo profughi, è il momento del tè.

Nuvole grigie all’orizzonte, la Siria dista solo 5 chilometri, ma all’interno di quella tenda la distanza e il tempo sono misure e concetti inutili, tanto sono stati ampliati dalla sofferenza.

La discussione verte sulla politica, sulla terra natia, sulle speranze tradite, sul futuro bloccato. “Abbiamo partecipato anche noi alle manifestazioni di protesta contro il regime di Assad nel 2011, eravamo tantissimi”, così Amir, il fratello più giovane, mentre ci invita a prendere un’altra tazza di tè. Impossibile negarsi all’accoglienza: altro bicchiere, altre parole. “Inizialmente pensavamo di poter cambiare le cose, le notizie provenienti dall’Egitto e dalla Tunisia ci davano speranza e forza, ma quel giorno ad Homs, quando l’esercito aprì il fuoco contro i manifestanti, segnò una svolta”, erano 200mila, stando alle parole di Amir, nella piazza della terza città più grande della Siria e le forze armate del governo, di Assad, circondarono i manifestanti e uccisero centinaia di persone.

Di promesse tradite e speranze mutate, da quel momento anche i più fiduciosi cominciarono a capire, a comprendere la spirale della violenza in cui, malgrado tutto, erano finiti.

“Ce ne furono altre dopo quella manifestazione, ma da quel momento l’organizzazione si dotò di persone munite di armi adibite alla sicurezza”, tensioni che si aggiungono a tensioni. La Siria pre guerra civile viveva in uno stato di polizia e corruzione simile a quella della Grecia dei colonnelli, del Cile di Pinochet o dell’Argentina delle giunte militari.

La Siria oggi è un campo di battaglia, una festa a cui partecipare per fare business.

“Afgani, pakistani, sudanesi, somali, yemeniti e nordafricani, Assad si è munito di milizie paramilitari per compiere il lavoro sporco”, così Mohamed, altro rifugiato, altra storia di fuga e sofferenza. “In Siria è entrato chiunque, regna la violenza e l’instabilità”, continua Mohamed, “i mercenari sono la parte più importante dell’esercito di Assad”. C’è stato un momento, in questa guerra fratricida, il cui risultato non sembrava assolutamente dalla parte del Presidente. Prima dell’intervento russo, prima di quello Hezbollah o dell’Iran, le fragili armate di Assad retrocedevano o subivano sconfitte. La scelta del Governo “ufficiale” di compiere un’amnistia nei confronti dei detenuti religiosi ha dato il via libera ad una frammentazione che si è poi rivelata suicida, sia per chi manifestava contro il regime, sia per il già debole esecutivo.
I mercenari sono solo l’ultimo capitolo di una guerra combattuta per promesse e debiti. Un giorno, qualunque sia il risultato del conflitto, la guerra finirà e i debiti dovranno essere pagati. “Non vediamo un futuro, né qua in Libano, né tantomeno in Siria”, Mohamed è sicuro, la Siria è e sarà ancora per molto, alla mercé della violenza.