di Cecilia Dalla Negra
“Da grande non sposerò chi mi picchia, mi umilia, mi considera una sua proprietà”. Questo – forse – avrebbe potuto dire la bambina dello spot che la Rai ha scelto di produrre in occasione del 25 novembre. Una di quelle giornate con G alta che rischiano già di per sé di non avere alcun significato capace di andare oltre la celebrazione formale. E invece, tra un sogno e l’altro, tra una veterinaria e una musicista, a lei tocca un futuro da vittima: da grande finirà in ospedale perché suo marito la picchia.
Predestinata – lei, e con lei tutte noi – in un esercizio di rassegnazione consapevole che rende la violenza di genere strutturale, dunque ineluttabile. Inevitabile, già scritta perché geneticamente intrinseca: nella predisposizione dell’uomo ad essere carnefice, e in quella della donna a farsi vittima.
In quanto debole è il sottotitolo non scritto.
Immagini che potrebbero farci infuriare, perché riconfermano quegli stereotipi che vorrebbero – maldestramente – combattere. Ma che lasciano piuttosto l’amaro in bocca di un’ennesima occasione perduta. Quella di iniziare ad invertire un immaginario comune e collettivo nel quale si continua a ricadere. Che a volte è un occhio nero, altre un labbro rotto: vale tutto, purché susciti pietà.
Un’inversione di linguaggio (e di concetto) necessaria, ma sempre più lontana laddove sfugge che la violenza non è l’inizio, ma la fine del percorso.
Che l’origine è quella cultura patriarcale mai sconfitta, diffusa oggi a un intero tessuto sociale che l’ha interiorizzata, donne incluse. Accolta e amplificata da un sistema mediatico complice, che ha finito per ridurre la donna ad una ristretta gamma di stereotipi: a noi scegliere in quale rientrare.
I dati sono raccapriccianti: in Italia l’80% delle donne subisce violenza, e dall’inizio del 2016 i femminicidi sono stati 116. Facendo due conti, vuol dire che una donna ogni tre giorni – nel nostro civilissimo paese, che invita allo stupro collettivo nelle pubblicità e si sente superiore rispetto all’altro da accogliere – muore.
Eppure, la violenza non è solo questa. E bisognerebbe imparare a riconoscerla.
Violenza è non poter scegliere cosa fare del proprio corpo. Doversi giustificare per un’interruzione di gravidanza o morire di parto perché tutti i medici in servizio in un ospedale pubblico sono obiettori di coscienza. Violenza sono gli spot pubblicitari che invitano alla sottomissione, o che santificano corpi perfetti e li mostrano come oggetti.
Violenza è la pubblicità di un detersivo che ha comprato sempre e solo mamma. Sono le favole in cui arriva sempre e solo un principe a salvare la principessa. Violenza è il tesoro, il bella o il ciccia usato dal barista che non ti conosce. E’ il maschile plurale anche quando si è di più in una riunione in cui bisognerà comunque urlare, perché la nostra voce è sempre troppo bassa.
Violenza è l’uomo che ti fissa sul tram, quello che ti segue per strada o che ti fischia da dietro la vetrina; ma è anche chi ti dice che esageri quando ti lamenti, perché in fondo ti fa piacere o perché “il femminismo è superato”.
Violenza è telefonare a un’amica tornando a casa la sera per illudersi di non essere sole; ma è anche chiedersi se sia il caso di indossare proprio quella maglietta al colloquio, perché la tua immagine sarà giudicata molto prima e molto più di quello che avrai da dire.
Violenza è uno schiaffo, ma anche l’ipocrisia delle quote rosa, dei ministeri ad hoc, delle campagne ministeriali; è firmare la promessa che figli non ne vuoi per ottenere un posto di lavoro, ma anche dare per scontato che si sia “materne per natura”. Violenza può essere un dibattito parlamentare per introdurre un congedo di paternità che durerà tre giorni, e poco importa che i figli durino invece tutta la vita.
Violenza è il “debole, molle, fiacca, snervata” suggerito da word come sinonimo di “femminile”.
Violenza è subire violenza ed esserne colpevolizzate; ma è anche essere strumentalizzate per questo dalla classe dirigente. E’ guadagnare in media il 10% in meno rispetto agli uomini semplicemente perché si è donne; ma anche dare per scontato che sceglieremo il part-time per crescere meglio i nostri figli.
Violenza è un insulto sessista urlato nel traffico – perché in quanto donna non sai guidare – ma anche considerare malattie la cellulite, la vecchiaia, il ciclo mestruale e la gravidanza. Sono le botte, ma anche essere guardate con sospetto dalle altre donne se si è troppo belle, troppo intelligenti, troppo femministe, troppo dirette, troppo sexy, troppo ammiccanti, troppo qualcosa.
Violenza può essere l’annientamento psicologico giocato dentro casa: perché devi stare zitta, perché tu che ne sai, perché tanto non lo sai fare. Insegnare ai figli maschi che non si piange, perché è una cosa da femmine. O pensare che la responsabilità di educarli ad un concetto diverso di rispetto della donna sia qualcosa che non ci riguardi.
Ecco perché sabato bisognerà tornare a camminare insieme, ma continuare a farlo anche dopo. Perché sarà la prima grande manifestazione dichiaratamente femminista che torna a riempire le strade italiane dopo anni. Nata dal basso, dalle donne e per le donne, senza sponsor o palchi, in un processo che per una volta è davvero partecipato.
Preparato nel corso di settimane di assemblee che hanno visto rinascere la necessità di ribellarsi, e che proseguiranno dopo la manifestazione con una serie di tavoli di discussione. Per elaborare il “Piano Antiviolenza Femminista” italiano, e iniziare a decostruire quella cultura sessista, violenta e patriarcale che permea il nostro quotidiano. Di cui la violenza non è origine, ma prodotto.
Anche quando non ci sembra.
Anche quando si nasconde.
Anche quando siamo incapaci di vederla perché, in fondo, a quell’oppressione ci siamo abituate anche noi.