Marocco, un festival rende fertile il deserto nel Tamazgha
testo di Matteo Gallo, foto di Giulia Frigieri
È ormai notte fonda nella piccola cittadina di M’Hammid el Ghizane dove ci aspetta Hassan che con una jeep 4×4 si cimenta in un rally improvvisato nel buio impenetrabile del deserto fino a un accampamento di tende bianche illuminate da un tetto di stelle fittissimo.
Qui, come un miraggio, si palesa davanti ai nostri occhi un’oasi musicale: non si tratta del solito dell’effetto ottico, non ci sono palme né laghetti di acqua limpida, ma un gigantesco palcoscenico circondato da un mare di casse. Il suono che si ode non è quello degli uccellini che vengo ad abbeverarsi nell’oasi, ma stridenti chitarre elettriche che improvvisano sulle classiche tonalità della scala araba.
Quando, a notte fonda, l’enorme gruppo elettrogeno che tiene in vita gli amplificatori si spegne, si accendono decine di fuochi sparsi nel deserto intorno ai quali prendono vita intense jam session che accolgono suoni provenienti da ogni parte del mondo: chitarre, oud, contrabbassi, djambè, darbuka, trombe si susseguono durante interminabili giri blues.
Questa è la colonna sonora del festival Taragalte, una manifestazione di musica nomade che si tiene ogni anno nel deserto marocchino e accoglie decine di musicisti provenienti da ogni parte dell’Africa.
Durante il giorno il tempo sembra scorrere a fatica, soffocato dal caldo intenso che anche a novembre non permette attività all’aperto; è infatti solo nelle prime ore della sera che a Taragalte risorge in un tripudio di suoni ed energia. Approfittiamo di questo momento di pausa per incontrare Oum, la matrona e volto del festival, che ci aspetta sorridente all’ombra di una tenda circondata da bambine che cantano la sua canzone. Infatti, l’inconfondibile voce della cantante marocchina accompagna il festival dal 2012, anno in cui esce l’omonima canzone che rappresenta un inno al Festival e che ha avuto un successo inaspettato anche sul web.
Cosa rappresenta per te questo festival?
Sono sette anni che vengo a Taragalte non solo come ospite ma anche come visitatrice. Per me questo deserto rappresenta un luogo di grande meditazione e produzione musicale.
Dopo l’invito ufficiale a diventare il volto del festival, sono rimasta incantata tanto che ho deciso di produrre una canzone in onore di questo luogo e di questa manifestazione che porta il suo nome, Taragalte. È un inno a questa terra. La canzone e il suo video hanno avuto un successo inaspettato su internet. In tutto il mondo il video è stato visualizzato, anche da persone che non hanno mai sentito parlare del festival e per me questo è stato un gran traguardo.
Il tuo legame con questo luogo è talmente forte che hai scelto di registrare il tuo ultimo album proprio qui a M’hamid al ghizane. Mi potresti raccontare la sua genesi?
L’album si chiama Zarabi. Registrare il disco qui mi ha permesso di entrare in contatto in modo più intimo con le genti di questo luogo magico e soprattutto con le donne. Sono rimasta completamente affascinata dalle donne del luogo che tessono i tappeti e il cui lavoro ha un enorme valore simbolico tanto da ispirare il titolo del mio album.
Zarabi vuol dire appunto “tappetto”. Questi tappeti sono fabbricati attraverso il riutilizzo di vecchi abiti usati che non vengono gettati ma riutilizzati. Questo fa si che in ogni tappeto si ritrovino differenti fili e tessuti appartenenti a diversi abiti. Questi tappeti rappresentano al massimo l’idea dell’incrocio e dell’intreccio di elementi differenti e che sento proprio vicina. I tappeti sono proprio come la io concepisco la mia musica: prendere elementi provenienti da diverse culture e tradizioni musicali e fonderle insieme.
Per questo motivo l’album è un omaggio al lavoro di queste donne, alla loro capacità di riformulare costantemente la pluralità di elementi che le circondano in maniera creativa e originale.
…registrare un album nel deserto, come funziona?
Il disco è stato interamente registrato en-plein-air: microfoni e strumenti incastrati nella sabbia e intense sessioni di registrazioni durante il giorno e la notte. Abbiamo dovuto assecondare al massimo il deserto. Non è stato facile soprattutto per gli strumenti dei musicisti, sottoposti a costanti stress dovuti al cambiamento caldo-freddo, alla sabbia all’umidità e al vento. Ma il risultato è magnifico! Per me questo deserto è il più bel studio di registrazione al mondo, infatti quest’anno anche i Tinariwen hanno registrato proprio qui a M’hamid il loro ultimo album.
Oggi sono felicissima perché, dopo un anno di tournée in qui il disco è stato presentato in giro per il mondo, finalmente torna a casa e per la prima volta viene suonato proprio qui dove si è generato.
Esibirsi nel bel mezzo del deserto marocchino, immagino sia un’esperienza molto diversa rispetto a suonare in un qualsiasi altro palco europeo. Pensi che qui la tua musica sia percepita in maniera diversa?
Ovviamente si. Nel deserto la musica è un vero e proprio modo di vivere, essa pervade ogni momento del quotidiano. La musica non è per fare spettacolo, fa parte della vita. Non bisogna essere un musicista nel senso occidentale del termine per fare musica. Basta essere intorno a un tavolo a bere del tè per fare musica, ovunque ci si trovi c’è sempre una chitarra e qualcuno pronto a suonarla. Per questo motivo per me suonare qui è ogni volta un’emozione fortissima.
Ma ciò non vuol dire che io non ami suonare in Europa. Sono due cose molto diverse ma credo sia necessario suonare la propria musica altrove, per far conosce al mondo interno la nostra storia. Spesso le identità dei popoli sono scritte da altri popoli e le storie si scrivono lontano da dove accadono. Il Marocco non è solo una terra di donne con il velo, che vengono picchiate ingiustamente, che vanno solo in moschea a pregare e dove è vietato suonare in pubblico. Non esiste un solo Marocco. Per questo motivo è estremamente importante raccontare altre realtà, essere testimoni diretti della propria storia, comunicarla al mondo intero. Io lo faccio attraverso la musica.
L’importanza del festival è di mettere in primo piano la cultura nomade come una generalità propria dei popoli del Sahara occidentale. Che cosa accomuna le genti di questa regione?
La vita dei nomadi ha molti tratti in comune a livello musicale ma anche culturale, e questo festival ce li ricorda presentando artisti provenienti dal Marocco, Mauritania, Mali, Algeria fino alla Nigeria. Questi popoli hanno tantissime cose in comune: la musica, il viaggio, la vita nella natura, lo statuto della donna, il modo di vestirsi, di fare il tè e percepire la musica. Sono persone che si dicono libere e poeti. Aperti allo scambio e alle relazioni. Nel deserto non ci si può nascondere, non ci sono alberi né case, e ognuno è libero di essere quello che è.
Questo spirito incentrato sulla libertà e sullo scambio si esprime perfettamente nella musica e nella jam dove musicisti provenienti da ogni parte del mondo si ritrovano insieme per suonare prima e dopo i concerti sul grande palco. Si avverte ogni volta un’emozione e una vibrazione incredibile: ogni jam ascoltata di notte intorno al fuoco è un best-of da registrare, la terra del deserto ha un’energia unica e anche le sue genti.
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Quest’anno proprio a Taragalte verrà inaugurata una scuola di musica che ospiterà musicisti provenienti da ogni parte del Mondo pronti a insegnare ai giovani allievi differenti metodi, approcci e stili musicali. Cosa ne pensi di questa iniziativa?
In Marocco ci sono veri e propri talenti musicali nascosti, proprio qui, tra le dune del deserto. Mi auguro che questa scuola riuscirà a svelarli.
Credo nella necessità di costruire una didattica che offra una duplice formazione: da una parte apprendere il linguaggio musicale del mondo e dall’altra apprendere la musica locale e i suoi specifici linguaggi. Ci sono dei griot, dei poeti e musicisti locali, che sono dei veri e propri maestri che da generazioni tramandano il prezioso sapere della musica da padre in figlio.
Un musicista completo è qualcuno in grado di equilibrare tra le conoscenze della musica locale e competenze nel fraseggio blues, rock.
Devo dire però che non è facile fare musica in Marocco, restare qui come musicista. L’industria discografica è morta, spesso non funziona il diritto d’autore e non vieni pagato quando i tuoi brani vengono suonati in giro, per non parlare delle difficoltà se sei una donna. Per questo motivo molti musicisti marocchini hanno scelto di partire e trasferisti altrove.
…ma tu sei rimasta
Io voglio essere un modello, voglio essere la prova che è possibile vivere in Marocco e fare musica. Sia per le genti di qui che per il mondo esterno. Perché io credo nel Marocco.
Con la ribalta della word music e la nascita di vere e proprie star musicali africane, la musica inizia ad essere percepita come un vero e proprio mestiere anche qui in Marocco. Cosa consiglieresti ai giovani musicisti che si affacciano a questo mondo?
Bisogna partire quando si fa musica. Purtroppo spesso è molto difficile, a causa dei visti. Bisogna andare altrove perché è incontrando gli altri, suonando la propria musica davanti ad altri, capire l’effetto che fa e guardando gli altri suonare le proprie musiche che prima di tutto si impara e ci si guarda veramente, attraverso lo sguardo degli altri.
Bisogna Partire, ma non intendo partire per restare…io non ho mai pensato di trasferirmi definitivamente in Europa o altrove. Ho sempre vissuto in Marocco e ho avuto la possibilità e la fortuna di viaggiare costantemente. Sono consapevole che non è una fortuna che spetta a tutti.
Se devo dare un consiglio ai giovani del Marocco che sognano di continuare a fare musica, bisogna apprendere a leggere la musica per poter comunicare con i musicisti di tutto il mondo. Ne parlo con estremo rimpianto perché io non ho mai potuto seguire una vera scuola di musica e non ho mai imparato a legge e scrivere uno spartito.
Nella musica non bisogna avere problemi di identità. Infatti, una volta che si è consapevoli della propria identità e la si padroneggia bene, solo dopo si può iniziare a scambiare. Bisogna sapere chi siamo e da dove veniamo, soprattutto per essere in grado di partire serenamente, altrimenti si parte senza voler più ritornare.
…E anche noi torniamo da questo viaggio con una nuova consapevolezza: ora più che mai il deserto ci appare come un luogo incredibilmente fertile, epicentro culturale capace di generare nuovi e sorprendenti talenti.
Taragalte, al culmine delle strade percorribili, non rappresenta la fine, ma l’inizio di un nuovo mondo. Perché è proprio qui dove non c’è nulla e l’immaginazione è più vivida, che si possono superare le frontiere imposte come linee inesistenti sulla sabbia. È qui che si estende “la terra degli uomini liberi” (Tamazgha), meglio conosciuti come Berberi. Così, seguendo le rotte dei loro scambi musicali si disvela davanti ai nostri occhi un universo fatto di relazioni, di storie fantastiche, di musicisti, di poeti e di artisti. Ma forse è solo un miraggio.