Oltre le conseguenze del risultato

Di referendum e conseguenze economiche per l’Italia. Un modello economico ingiusto e sbagliato che il Sì continuerà a perpetrare e gli scenari della vittoria del No

Di Eugenio Caverzasi e Clara Capelli

Il 18 novembre 2011 il governo tecnico guidato da Mario Monti si insediava a Palazzo Chigi dopo la fiducia di Camera e Senato. Il 20 aprile 2012 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano firmava la legge che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio in Costituzione.

Nel frattempo, nel mese di dicembre era stato approvato il cosiddetto decreto Salva-Italia, una manovra da oltre 30 miliardi comprensiva della riforma delle pensioni targata Elsa Fornero e della reintroduzione dell’ICI sulla prima casa. Seguiranno il decreto Cresci-Italia sulle liberalizzazioni in gennaio e il decreto Semplifica-Italia in aprile.

Il sobrio governo tecnico post-Berlusconi si insediò fra mille attese di “riforme” dopo anni di immobilismo ed eccessi. E le fece in tempi rapidissimi. Nonostante il bicameralismo perfetto.

Dopo l’intermezzo del governo Letta con il suo Decreto del Fare sulle semplificazioni, il 21 febbraio 2014 gli succede Matteo Renzi. Il governo più giovane della storia della Repubblica promulga una nuova legge elettorale, l’Italicum e riforma in modo sostanziale il mercato del lavoro con il Jobs Act.

Il 4 dicembre 2016 gli italiani sono chiamati al voto per esprimersi sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi, il cui dichiarato obiettivo – ripetuto e ribadito in modo martellante per mesi e mesi – è quello di creare un assetto costituzionale per consenta di accelerare il processo di riforme necessario a rimettere l’Italia sul sentiero di crescita dopo decenni di stagnazione.

Eppure, come si è appena illustrato solo rispetto agli anni più recenti della nostra storia, di riforme ne sono state fatte e proprio attraverso i meccanismi costituzionali ora additati come causa primigenia di tutti i mali dell’Italia.

Ed è sulla forbice tra la nostra percezione e la radicalità di queste riforme che dovremmo riflettere, cominciando dal riconoscere che – in Italia come altrove nel mondo – la crisi strutturale che stiamo vivendo consegue dall’ostinata applicazione di un modello di crescita fondato su stabilità e automatismi di mercato nonostante l’evidente approfondirsi di disuguaglianze e sofferenze socio-economiche.

L’Italia, da anni e in linea con gli altri Paesi europei, segue i criteri di rigore fiscale richiesti dalla UE a spese del sistema sociale, ha adottato una serie di misure per incoraggiare gli investimenti privati e liberalizzato il mercato del lavoro. Il pareggio di bilancio in Costituzione ha di fatto reso incostituzionale qualunque politica di tipo keynesiana (nel senso più fedele alla Teoria di Keynes).

Si tratta di un processo in corso dagli anni Ottanta, nel cui lungo solco si inserisce il referendum sulla riforma costituzionale. Eliminare un po’ di lacciuoli del diritto, semplificare, fare business, prendere decisioni snelle e rapide perché in un Paese che diventa un’azienda non si deve perdere troppo tempo per discutere. Veloci ed efficaci e se qualcuno dovrà fare dei sacrifici poco male, prima o poi tutto si sistemerà.

Forse è vero, come dice Renzi, che siamo indietro di vent’anni. Bisognerebbe però domandarsi rispetto a quale percorso siamo indietro. Bisognerebbe porsi la domanda di cosa dobbiamo accelerare e semplificare in un Paese in cui la povertà è in aumento e il Jobs Act non ha migliorato la situazione sul mercato del lavoro, che continua a essere asfittico e caratterizzato da diffuse condizioni di precariato. Se si vuole dare un senso politico al voto del 4 dicembre, forse sarebbe opportuno cominciare rivedendo la nostra idea radicata di riforme e stabilità dicendo No a un processo politico fallimentare non per mancanza di riforme, ma proprio per il tipo di riforme adottate in questi decenni, proprio – è importante ripeterlo – all’interno di un sistema di bicameralismo perfetto.

Ma è anche importante rendersi che né una vittoria de Sì né una vittoria del No potranno creare le condizioni per risolvere i numerosi problemi dell’Italia.

La vittoria del Sì non metterebbe certo in questione i risultati della politica economica italiana degli ultimi anni né tanto meno quella del governo Renzi, che continuerebbe a fare la corte agli investitori considerando il lavoro una questione ancillare, come auspica gran parte dell’establishment politico-economico mondiale, dai leader europei al Financial Times, in nome della “stabilità”.

Si tratterebbe di un cambiamento di facciata e non di sostanza né “di verso”, che pone e porrà serie domande circa l’ulteriore acuirsi dell’esclusione di quanti si sentiranno o saranno di fatto esclusi dalle poche sacche di benessere e prosperità che queste misure possono creare (o alimentare).

Tuttavia, la vittoria del No non fermerebbe da sé questo processo né probabilmente riuscirebbe nemmeno a rallentarlo. Il timore che questo scenario possa aprire a un governo “populista” (qualunque cosa questo termine voglia dire), accrescendo l’”instabilità dell’Italia” è stato espresso in molteplici sedi durante la campagna referendaria.

L’Italia è ancora la quarta economia in Europa e l’ottava a livello mondiale. Dall’altra parte, le difficoltà strutturali della sua economia, dalla bassa bassissima crescita alla disoccupazione fino al suo sistema bancario in profonda sofferenza, sono fonte di grande preoccupazione per le ripercussioni che un eventuale tracollo economico potrebbe avere sullo scenario internazionale. Le incertezze sul futuro politico dell’Italia si sono tradotte in questi mesi in un aumento dello spread BTp-Bund (il differenziale di rendimento tra titoli italiani e tedeschi, una misura della rischiosità dei primi) e in un ulteriore calo dell’indice Ftse Ita Banks (indice dell’andamento dei titoli delle banche italiane quotate a Piazza Affari).

In un mondo di libera circolazione dei capitali, l’economia e la finanza non ricercano solo governi dalle decisioni rapide e business-friendly. Vogliono anche governi prevedibili, politiche a loro affini e familiari.

Rimanendo nel campo dei giudizi di fatto, la possibilità di un governo “populista” o “anti-establishment” accrescerebbe l’incertezza perché legata a scenario meno controllabile rispetto allo status quo. E la vittoria del No aprirebbe a questa incertezza provocando almeno nel breve-medio periodo non trascurabili scossoni all’economia italiana.

Anche l’opinione dell’Economist, che molti ha sorpreso auspicando la vittoria del No, si ascrive in questo discorso. A diversi osservatori dell’economia e della finanza non è infatti sfuggito che la vittoria del Sì potrebbe preservare la stabilità del governo Renzi nell’immediato, ma la formazione politica vincitrice della prossima tornata elettorale – non necessariamente il Partito Democratico, non improbabilmente il Movimento 5 Stelle – disporrebbe di ampli margini di manovra politica.

E si tornerebbe al punto di partenza dei mal di pancia per la “stabilità”. Per tale ragione l’Economist, con la sfiducia e lo sprezzo nei confronti della politica italiana che lo contraddistinguono, ha caldeggiato la vittoria del No e l’insediamento di un nuovo governo tecnico, riportando indietro le lancette dell’orologio all’inverno del 2011.

Tristemente, l’Italia del referendum è al bivio fra due scarpate, bivio cui siamo giunti non per immobilismo, ma per le cattive scelte della nostra classe politica e imprenditoriale.

Possiamo dire Sì e continuare a ignorare che stiamo percorrendo una strada che lascia dietro di sé troppi sconfitti e pochi vincitori. Possiamo dire No, preparandoci alle conseguenze che ne seguiranno.

Possiamo riconoscere, comunque si voti, che il No più importante è quello che dovremo dire a partire dal 5 dicembre, rifiutando ogni giorno un modello che da troppo tempo disattende le sue promesse. E non per colpa dell’assetto costituzionale corrente, ma perché intrinsecamente inefficace e ingiusto.