Il 4 dicembre siamo chiamati a votare per approvare o respingere la riforma della Carta costituzionale promossa dal governo
di Silvia Boccardi, illustrazioni di Martina Antoniotti, tratto da Kaledata
“Approvate il testo della legge costituzionale concernente disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della costituzione?”, ci sarà scritto sulla nostra scheda per approvare o respingere la riforma della Carta costituzionale.
In quanto modifica costituzionale, la riforma deve per forza essere sottoposta alla volontà popolare ma il risultato sarà valido indipendentemente dall’affluenza alle urne. La legge, se approvata, prevede delle modifiche significative all’ordinamento delle istituzioni, in particolare il superamento del bicameralismo perfetto e la riforma del titolo V.
Ed è proprio sull’addio al bicameralismo che si concentrano i sostenitori del Sì. Secondo loro, i benefici sarebbero, in breve, la riduzione dei tempi di legiferazione, una maggior fiducia nella Camera, i risparmi dati dalla diminuzione del numero di parlamentari e dall’abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, e un miglioramento generale della democrazia, grazie al ruolo ‘cuscinetto’ del Senato tra governo e poteri locali e all’introduzione del referendum propositivo e delle modifiche sul quorum referendario.
La posizione del No, invece, è critica sia del quesito referendario, sia della riforma che propone, considerata illegittima in quanto prodotta da un Parlamento eletto col Porcellum. Secondo gli oppositori della riforma infatti, la modifica costituzionale non permetterebbe il superamento del bicameralismo paritario, il procedimento legislativo non verrebbe semplificato e il risparmio sarebbe minimo rispetto al rischio della combinazione riforma -legge elettorale Italicum che permetterebbe di accentrare il potere nelle mani di un solo partito (e un solo leader) al governo.
SONDAGGI
Anche se gli ultimi dati davano per probabile una vittoria del No, a partire da venerdì 18 novembre non è stato più possibile pubblicare sondaggi, per la gioia di molti di noi, e meno di altri. L’intento del divieto infatti è quello di non influenzare gli elettori nella scelta di una o di un’altra fazione, ma non tutti rispettano le regole imposte dall’AGCOM.
La questione ‘sondaggi’ è, in generale,particolarmente controversa: come abbiamo visto di recente con le elezioni americane, non sempre i polls sono indicativi del risultato.
Non solo infatti può dimostrarsi riduttivo basarsi su previsioni di campione, spesso risulta anche molto complesso unire dati che qualitativamente e quantitativamente sono diversi tra loro. Ad esempio, un sondaggio condotto tra ottobre e novembre da Demetra per IlSole24ore dimostra che al giudizio sui quesiti posti dalla riforma non corrisponde sempre la stessa dichiarazione di voto.
Allo stesso modo, uno studio promosso dalla LSE evidenzia che gli elettori italiani non sarebbero tanto divisi sui contenuti della riforma costituzionale proposta, quanto tra sostenitori e oppositori del premier. Ci sarebbe infatti forte consenso su molte parti della riforma ma non altrettanto sul farla passare.
Questo per alcuni è dovuto al fatto che Matteo Renzi ha inizialmente legato il destino del suo governo all’approvazione della modifica, promettendo di dimettersi se la proposta fosse stata respinta e personalizzando in tutto e per tutto la riforma costituzionale. Una strategia del genere può funzionare quando il governo o il premier in questione è popolare, ma quando gli indici di gradimento scendono, può addirittura trasformarsi in una mossa controproducente.
La scoperta chiave della ricerca infatti è sorprendente: chiunque si limiti anche solo a menzionare la riforma costituzionale messa a punto dalla ministra Boschi riduce il proprio sostegno tra gli elettori italiani. A poco è servito che il premier chiedesse scusa.
Di fatto, comunque, uno degli ultimi sondaggi realizzato da IPSOS ha riportato che il 47% degli italiani è convinto che qualsiasi sia il risultato del referendum, non assisteremo a nessun cambiamento che sia di natura politica o sociale.
ALTRI REFERENDUM
Un tempo chiamato plebiscito, l’utilizzo politico del termine referendum si comincia a diffondere nel XVI secolo nel cantone svizzero di Graubünden. E proprio la Svizzera è il Paese che ad oggi ha tenuto più referendum, oltre 600 dal 1848, e dove ogni cittadino può richiamare il suo popolo al voto purché ottenga 50.000 firme entro 100 giorni.
In Italia, non è la prima volta che si vota per dei referendum non abrogativi, cioè in cui il voto espresso dai cittadini non è volto a cancellare norme. Già nel 1946, per esempio, gli italiani votarono per scegliere tra Monarchia e Repubblica, e nel 1989, per esprimersi contro o a favore della creazione dell’Unione Europea. Nel 2001 e nel 2006 poi ci venne chiesto di scegliere se approvare o meno delle modifiche alla Costituzione: una volta vinse il sì, una volta il no.
DEMOCRACY?
Ad oggi, nel mondo, ci sono 123 democrazie (più o meno democratiche) su 192 Paesi. In un’epoca del genere, i referendum potrebbero rappresentare un’anomalia: c’è chi li considera la massima espressione di democrazia diretta e chi critica l’idea di eleggere un governo anche in rappresentanza delle minoranze per poi far scegliere alla maggioranza attraverso una falsa rappresentazione di uguaglianza sociale.
Nel marzo 1975, citando l’ex prime minister Clement Attlee, Margaret Thatcher definì i referendum ‘uno stratagemma per dittatori e demagoghi’ che riduce questioni complicate a domande estremamente semplicistiche.
Più che altro, i referendum tendono ad essere imprevedibili, legati come sono non solo al quesito in sé ma anche a turbolenze politiche e a eventi esterni – come è accaduto recentemente in Colombia con l’uragano Matthew. La personalizzazione delle posizioni poi, insieme alla mancanza di informazione indipendente, rischia di spostare l’attenzione da una questione pubblica già mal formulata alla popolarità o impopolarità di un certa figura politica.
E la comunicazione politica negativa ha un ruolo fondamentale in questo.
In Thailandia, ad esempio, la giunta militare ha promesso nuove elezioni una volta modificata la costituzione (in suo favore) e la misura è passata. In Colombia, l’opposizione si è focalizzata sul fatto che il sì al referendum avrebbe assolto alcuni componenti delle FARC. Quel trattato di pace è saltato. In UK, per quanto lasciando l’Unione si rischiasse un suicidio economico, il ‘Leave’ ha puntato sulla minaccia immigrazione e ha vinto. L’Ungheria non è riuscita a limitare il numero di rifugiati da accogliere solo perché non ha raggiunto la partecipazione necessaria per un risultato valido.
Sempre più spesso ormai è proprio la bassa affluenza a determinare una scelta drastica a livello economico, sociale e politico e che esula dai confini dello Stato in questione.
Nel 2016 gli elettori di tutto il mondo hanno avuto modo di confrontarsi coi referendum, dal Sud America all’Europa all’Asia, e i risultati sono quelli che sono.
Come in Ungheria, in UK e in Colombia, non è difficile comprendere come gli elettori continuino a votare il contrario di ciò che i leader politici chiedono loro.
E non ci sorprende neanche troppo constatare i bassi livelli di partecipazione a scelte proposte da élite politiche che vivono completamente distaccate, lontane anni luce, dalla realtà quotidiana dei loro elettori.
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