Banane amare

Cosa c’è dietro la produzione della frutta più economica del mondo in Ecuador?

di Alice Facchini

È difficile immaginare cosa ci sia dietro la produzione di un frutto gustoso, ricco di elementi nutritivi e per di più molto economico come la banana. Quando le troviamo sugli scaffali dei nostri supermercati le buttiamo nel carrello senza neanche controllare la marca o il paese di provenienza.

Sappiamo però che la gran parte viene dal Latino America, e in particolare da paesi come la Costa Rica, la Colombia o l’Ecuador. Ma come mai, nonostante gli 11mila chilometri che hanno percorso, queste banane costano solo poco più di 2 euro al chilo?

Se, prima di addentarne una, potessimo seguire a ritroso il percorso che ha fatto e vedere come viene prodotta, è possibile che poi non vorremmo mangiarla più. Nelle piantagioni avvengono infatti gravi violazioni dei diritti umani come lo spargimento di pesticidi tossici su lavoratori e case, orari di lavoro estenuanti (fino a 12 ore al giorno), salari più bassi del minimo imposto dalla legge e assenza di contratti e assicurazione sanitaria.

“In Ecuador quello della banana è un business molto redditizio e io, come tanti altri, ne traevo profitto”, racconta Jorge Acosta, che per molti anni ha lavorato come pilota degli aerei che buttano pesticidi e sostanze chimiche sulle piantagioni. “Guadagnavo bene, mi pagavano anche 5 o 6 mila dollari al mese. Poi un giorno mi sono ammalato. Quando ero sull’aereo sentivo una forte stanchezza, la testa era pesante, la vista era sfocata e avevo problemi di pressione. Non capivo a cosa fosse dovuto: avevo un’alimentazione equilibrata, dormivo abbastanza e non assumevo farmaci. Poi, confrontandomi coi miei colleghi, mi sono reso conto che anche loro accusavano lo stesso malessere”.

Jorge Acosta

Jorge Acosta

Così Jorge si è messo ad indagare e ha scoperto che il pesticida che veniva rilasciato dagli aerei era altamente tossico. “Queste sostanze finivano non solo sulle piantagioni ma anche sui lavoratori, sulle case e nei fiumi. Stavamo avvelenando la nostra stessa gente”, dice dopo un lungo sospiro, scuotendo la testa.

Jorge ha deciso allora di non tacere e ha denunciato tutto. Ha perso il lavoro e ha iniziato a ricevere intimidazioni, addirittura minacce di morte. “Il mio caso è stato ripreso anche dai media ed è diventato abbastanza noto. Spesso ricevevo chiamate da altri lavoratori che volevano confrontarsi con me sui loro problemi e sulle possibili soluzioni. È stato allora che ho capito che dovevo fare qualcosa in più: con l’aiuto di alcuni compagni ho fondato un sindacato, l’ASTAC (Asociacion Sindical de Trabajadores Bananeros Agricolas y Campesinos), con l’obiettivo di difendere i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici delle piantagioni di banano”.
È così che Jorge si è guadagnato il soprannome di El Capitan, con cui lo chiamano gli iscritti dell’ASTAC.

Primo Paese al mondo per l’esportazione di banane, oggi l’Ecuador controlla circa il 30 percento del mercato globale, con 6 milioni di casse esportate ogni settimana (secondo i dati dell’istituto ProEcuador). Il primo importatore è l’Europa, seguita dagli Stati Uniti e dalla Russia. In Ecuador circa 2 milioni di lavoratori sono impiegati nel settore, anche se non si dispone di cifre esatte perché molti non hanno contratto.

“Nel settore bananero ecuadoriano c’è un oligopolio di cinque imprese nazionali, Reybanpac, Palmar, Noboa, Ubesa e Obsa – spiega Jorge Acosta –. Queste hanno una marca propria ma vendono anche a grandi multinazionali come Chiquita, Del Monte e Dole. Le grandi 5 qui sono proprietarie di tutto, in primis della terra: possiedono enormi latifondi di centinaia di ettari e controllano tutta la catena di produzione, dalle piantagioni ai prodotti agricoli, dai pesticidi ai cartoni, e gestiscono anche la distribuzione, possedendo le navi commerciali e addirittura i porti. Naturalmente hanno anche società offshore nei paradisi fiscali”.

Le piantagioni si trovano soprattutto nel sud-ovest dell’Ecuador, in particolare nelle province de Los Rios, El Oro e Guayas. Qui vige la monocoltura intensiva della varietà di banana Cavendish, l’unica che viene esportata all’estero: questo ha portato alla deforestazione di grandi quantità di bosco umido e alla perdita irreparabile di un gran numero di specie endemiche.

È a Quevedo, la città più importante della provincia de Los Rios, che ha sede l’ASTAC. Qui gli alberi di banano crescono un po’ dappertutto, nei giardini delle case, nei parco giochi, persino negli spartitraffico.

Basta allontanarsi di qualche chilometro dalla città per entrare nelle grandi piantagioni, con intere file di banani allineati ordinatamente e pali di bambù piantati a terra per aiutare il tronco a sostenere il peso dei frutti. I caschi vengono avvolti in grandi sacchetti di plastica, che aiutano a proteggere le banane dagli uccelli. E le foglie secche vengono tagliate da una speciale squadra di potatori che ha il compito di tenere gli alberi puliti.

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Insomma, camminando per i campi sembra che nulla sia lasciato al caso (e alla natura) e che tutto sia pianificato per ottenere la massima efficienza dalla terra. Il banano non ha periodi di raccolta specifici e produce frutti durante tutto l’anno: ogni dieci settimane nasce un nuovo casco di banane, ognuno dei quali pesa 35-45 chili. Prima di far partire le spedizioni, le imprese cospargono i frutti di sostanze chimiche che ne rallentano la maturazione: il più comune è il tiabendazolo, altrimenti noto come E233, che serve per contrastare muffe, avvizzimenti e altri tipi di funghi.

Lo sfruttamento delle terre qui si aggiunge allo sfruttamento delle persone: “E’ da 12 anni che sono in questo settore, faccio il potatore” racconta José, lavoratore in una piantagione, tenendo lo sguardo basso verso il pavimento. Come tanti altri, anche lui ha chiesto di non divulgare il suo cognome per paura di ripercussioni. Risponde alle domande in modo secco, senza dilungarsi.

“Guadagno 340 dollari al mese, meno del salario minimo nazionale di 366 dollari, non mi pagano gli straordinari e non mi danno neanche le ferie. Per fortuna almeno ho l’assicurazione sanitaria. La maggior parte dei miei colleghi non ce l’ha e per di più guadagna meno di me, ma non osa rivolgersi al sindacato: quando le aziende vengono a sapere che ti sei iscritto a un’organizzazione di lavoratori ti licenziano e poi ti minacciano. Può diventare anche molto pericoloso”. Le aziende di produzione di banano non hanno voluto concederci un’intervista né rilasciare dichiarazioni a riguardo.

Uno dei problemi denunciati dal sindacato è quello delle liste nere: “Si tratta di elenchi dei lavoratori che hanno preteso il rispetto dei propri diritti o si sono appellati a un sindacato – spiega Jorge Acosta –. Le imprese di produzione delle banane redigono queste liste e le condividono tra loro, in modo che la persona non possa più trovare lavoro nel settore dopo essere stata licenziata. Questi signori farebbero di tutto per conoscere i nomi degli iscritti all’ASTAC e più di una volta hanno tentato di infiltrarsi nei nostri uffici e rubare i dati, ma non ci sono mai riusciti. Tuteliamo sempre i nostri affiliati, sappiamo che per loro è una questione molto delicata”.

Molti lavoratori quindi aderiscono al sindacato in segreto, tra questi anche José: “Faccio parte dell’ASTAC da alcuni anni ma non ne parlo in pubblico, non voglio rischiare”. José abita nel piccolo paese di San Pedro de la Y, completamente circondato dalle piantagioni.

Le case, strutture in cemento a un solo piano, con il tetto piatto e un patio esterno dove campeggiano alcune amache, confinano con gli alti alberi di banano. Al centro del paesino la piazza principale consiste in una distesa di cemento con due porte da calcetto e due canestri: è qui che le persone si riuniscono nel fine settimana, giocando tutto il giorno a pallone o guardando gli altri sfidarsi.

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“In questo paese tutti lavorano per le imprese di produzione di banane: giovani e vecchi, uomini e donne, non fa differenza – racconta José –. C’è chi si occupa di infilare i caspi nei sacchetti di plastica, chi ha il compito di raccoglierli, chi di trasportarli fino all’imballatrice e chi di selezionare quali sono quelli adatti alla commercializzazione”.

Alcune mansioni vengono considerate prettamente femminili e svolte per la quasi totalità da donne. È così che si sono verificati nuovi tipi di violazioni dei diritti: le avances e gli abusi sessuali da parte dei capi. “Io li ho visti più di una volta, è una cosa di cui ci si rende conto subito quando si frequenta l’ambiente”, racconta Genaro, che di mestiere fa il “valutatore”, ossia colui che seleziona le banane che hanno una qualità sufficientemente alta per l’esportazione. “I principali trattano malissimo i loro sottoposti e pensano di essere i padroni di tutto, non hanno rispetto per nessuno, neanche per le donne o per gli anziani”.

Angela invece si occupa di imballaggi e lavora nel settore da 7 anni: “Non mi è mai capitato di vedere il mio capo fare avances alle mie colleghe, però ho assistito a diversi soprusi. La cosa peggiore che ti può succedere è quella di restare incinta, perché subito ti licenziano. Una volta per esempio una ragazza di 22 anni è rimasta incinta, ma l’ha nascosto in tutto i modi per paura di perdere il posto. Ha continuato a fare il suo lavoro come sempre: si occupava di cospargere le banane di sostanze chimiche per ritardarne la maturazione. Il contatto con queste sostanze le ha causato un tale danno che ha avuto un aborto spontaneo dopo 6 mesi, ma anche in quel caso ha tenuto nascosto tutto per paura di ripercussioni”.

Anche Andres, il figlio di José, lavora in una piantagione di banano. Ha 25 anni, una moglie e un figlio, e fa questo mestiere da quando ne aveva 18. “Solo nell’ultimo anno sono stato regolarizzato e dispongo di un’assicurazione sanitaria, ma in realtà non è cambiato granché per me – dice a bassa voce, con sguardo diffidente –. Continuo a lavorare 10 ore al giorno, dalle 6 di mattina alle 4 di pomeriggio, guadagnando meno di 2 dollari l’ora. Ogni mattina, per arrivare al campo, esco di casa alle 4 e prendo un camion di quelli fatti per trasportare bestiame: è l’unico mezzo di trasporto che ci viene fornito, qui non esistono servizi pubblici. Qualche anno fa alle imprese è stato imposto di organizzare il trasporto dei lavoratori su appositi autobus, ma non tutti si sono adeguati. La cosa peggiore del mio lavoro però sono i pesticidi tossici: gli aerei arrivano e li spargono senza preavviso, anche mentre noi stiamo lavorando o, peggio, mentre stiamo mangiando. Succede una volta ogni 10 giorni. Tutto viene ricoperto da un liquido giallo dall’odore fortissimo, tanto che si fatica a respirare”.

Sono queste le tanto famigerate fumigazioni aeree: nient’altro che lo spargimento nell’aria di pesticidi chimici altamente tossici, con aerei o a mano con pompe a spalla.

“Il più comune è il Mancozeb, fungicida utilizzato spessissimo nella provincia de Los Rios – spiega Acosta –. Formalmente queste sostanze sono legali, ma ciò non significa che non siano velenose”. Il Mancozeb, ad esempio, è stato annoverato tra i pesticidi più pericolosi secondo il PAN (Pesticide Action Network).

“Negli Stati Uniti per utilizzare il Mancozeb si è obbligati per legge a prendere diverse precauzioni: i piloti aerei devono avere cabine ermetiche, i lavoratori possono tornare nei campi non prima che siano passate due ore dalla fumigazione e addirittura i vestiti di chi è stato a contatto con la sostanza vanno buttati. Qui invece a nessuno importa niente, i pesticidi inquinano l’aria e l’acqua dei fiumi e finiscono per comportare grossi danni alla salute dei lavoratori e degli abitanti della zona, ma nessuno muove un dito”.

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In questa zona si riscontra infatti una forte incidenza del cancro e un alto numero di aborti spontanei e bambini nati con deformazioni. Una ricerca del 2007 di Acción Ecológica effettuata su due comunità ecuadoriane esposte a fumigazione mostra che “le persone presentano una maggior probabilità di contrarre malattie sia acute sia croniche”, afferma Alfonso Maldonado, redattore dell’indagine.

“Ci sono due tipi di sintomatologia: quella che si presenta durante la fumigazione e quella che si presenta solo successivamente. Durante, le persone riportano mal di testa, malessere generale, lacrimazione e irritazione agli occhi, il che è riconducibile a un quadro di intossicazione acuta. Con il tempo, invece, si presentano infermità croniche come depressione e conseguenti suicidi, problemi alla pelle ma anche cancro, aborti o malformazioni congenite, che mostrano che è avvenuta un’alterazione genetica, una delle principali conseguenze dell’esposizione a fumigazioni”. E aggiunge Acosta: “Qui vicino c’è una scuola per bambini disabili, si chiama Nuestra Señora del Carmen: lì l’80% dei bambini con problemi è figlio di lavoratori dei bananeti”.

Uno dei fiumi maggiormente inquinati è il rio Chila, che bagna il paese di San Pedro de la Y e che scorre anche in mezzo alle piantagioni di banano. L’acqua si muove lenta, ha un colore marrone scuro e in certi punti vi galleggiano rifiuti. Costeggiando gli argini per qualche centinaio di metri scorgiamo una famiglia che sta facendo il bagno. I bambini si spruzzano l’acqua mentre la mamma si fa lo shampoo, il papà si lava il corpo e la sorella maggiore fa il bucato.

“Il fiume è contaminato, tutti lo sanno – afferma Acosta –. Eppure molti continuano a usare l’acqua per svolgere le loro attività quotidiane. Come mai? È semplice, non hanno molta altra scelta, a volte le case non sono dotate di impianto idrico”.

Con il tempo sembra però che la situazione stia migliorando, anche se lentamente: “Una volta nessuno si interessava alle nostre condizioni di lavoro e vivevamo praticamente in schiavitù – racconta Luis, 51 anni –. Adesso invece ci sono organizzazioni internazionali e giornalisti che vengono a fare ispezioni, ed esistono alcuni sindacati a cui possiamo chiedere aiuto. Per esempio, dopo diverse lotte sindacali abbiamo ottenuto un bus fornito dall’azienda per andare al lavoro. Un tempo invece ti caricavano su camion qualsiasi, a volte persino quelli della spazzatura. Un altro aspetto fondamentale è che il lavoro minorile è diminuito tantissimo e oggi i minori non superano il 3%. Una volta invece, non ne parliamo!” si mette a ridacchiare, gesticolando con le braccia.

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“Io per esempio ho iniziato quando avevo 5 anni. Andavo a lavorare con mio zio, era una cosa normale: intere famiglie venivano impiegate nei bananeti, ogni lavoratore dovevano coprire per forza un certo numero di ettari e così gli uomini chiamavano anche le mogli e i figli ad aiutarli”.

Luis è uno di quei lavoratori che crede molto nel valore della lotta sindacale: “Non lo faccio per me, lo faccio per quelli che verranno dopo, i miei figli, i miei nipoti”. Quando parla corruga la fronte bassa sovrastata dai capelli nerissimi. Luis ha uno sguardo particolare, con un occhio un po’ più aperto dell’altro, e un simpatico sorriso un po’ sdentato. Nel 2014, quando lavorava per Frutsesa Frutas Selectas, insieme ad alcuni suoi colleghi ha formato un sindacato interno all’azienda. Quando i suoi capi l’hanno scoperto l’hanno licenziato: “Era il 24 ottobre 2014. Da quel momento in poi ho iniziato a raccontare la mia storia, per convincere anche altri a denunciare i soprusi sul posto di lavoro. Nell’aprile 2015 sono stato invitato a Lima, in Perù, a parlare davanti al Tribunale Etico Andino: è stato questo che li ha fatti impazzire”.

Una volta tornato in Ecuador, Luis ha ricevuto minacce telefoniche. All’inizio solo una chiamata in cui una voce (che lui poi ha riconosciuto come quella del suo ex-capo della Frutsesa) gli diceva: “Ti tengo d’occhio”. E poi una serie di messaggi minatori come: “Adesso vedrai p***na di tua madre cosa succede a chi cerca di in**lare la gente che sta lavorando bene”, e poi “Aspetta e vedrai dove ti sei infilato”.

L’8 maggio del 2015 Luis denuncia alla polizia: “All’inizio avevo molta paura, camminavo guardandomi sempre intorno, tenevo il cappellino abbassato sugli occhi. Ma poi ho ricevuto l’appoggio dei miei compagni del sindacato e anche di diverse organizzazioni internazionali che mi hanno mandato lettere di supporto – dice raggiante mentre sventola le lettere –. Grazie a loro non mi sono mai sentito solo”. Adesso Luis ha cambiato casa e abita in un luogo sicuro: “Quasi nessuno sa dove vivo, sarebbe molto pericoloso. Anche la maggior parte dei miei familiari non sa dove mi trovo, ci parliamo solo per telefono, è meglio così”.

Per più di un anno Luis non ha trovato un altro lavoro, secondo lui perché era stato inserito nella lista nera delle aziende bananere. Da gennaio però ha ricominciato a lavorare in una piantagione, anche se senza contratto: “Ci sono riuscito perché sono stato ingaggiato attraverso un intermediario, non ho mai avuto nessun contatto con l’azienda né ho mai dovuto dire il mio nome o fornire i documenti. Altrimenti sarebbe stato impossibile”. Ha ripreso quindi il ritmo usuale: svegliarsi alle 3 e mezza di notte, uscire di casa alle 4 e mezza, lavorare 10-12 ore al giorno, con soli 10 minuti di pausa per la colazione e 10 per il pranzo, e poi tornare a casa a riposare, senza farsi vedere troppo in giro.

Ma se la produzione delle banane è così ingiusta, lo stesso vale anche per le banane vendute con il commercio equo solidale? “In quel caso la situazione è molto migliore, anche se comunque abbiamo ricevuto segnalazioni di violazioni dei diritti umani persino in alcune imprese del circuito del commercio equo – spiega Jorge Acosta –. Il problema è che gli enti certificatori non hanno relazioni dirette con i lavoratori e non vanno ad analizzare caso per caso. Così, spesso capita che gli sfugga qualcosa. L’ideale sarebbe che parlassero direttamente con i sindacati, per capire davvero com’è la situazione dentro un’azienda. Tutte le imprese che fanno parte del circuito del commercio equo dovrebbero permettere ai propri lavoratori di aderire a un sindacato, questo dovrebbe essere un requisito fondamentale per ottenere la certificazione”.

La ASTAC è un’organizzazione molto presente sul territorio e conta già 800 iscritti, ma ancora non è stata inserita nella lista dei sindacati registrati perché formalmente non raggiunge il numero minimo di iscrizioni, che dovrebbero essere almeno 30 per ciascuna piantagione (e ogni impresa possiede diverse piantagioni): “Il governo non ha voglia di inserirci nel registro perché non gli conviene, a quel punto potremmo iniziare a scioperare e bloccare le imprese – spiega Jorge Acosta –. Riceviamo molto più riconoscimento dal punto di vista internazionale piuttosto che dentro il paese e al momento veniamo supportati da organizzazioni del Belgio, della Germania e degli Stati Uniti. Per sostenere il nostro lavoro siamo in continua ricerca di nuovi finanziamenti e collaborazioni. Ultimamente ad esempio abbiamo aderito alla campagna Make Fruit Fair, in cui alcune Ong europee lavorano a stretto contatto con sindacati di Africa, America Latina e Caraibi per migliorare le condizioni di lavoratori della filiera di produzione di frutti tropicali”.

Quando compriamo una banana, dobbiamo sempre tener presente che solo una minima parte del prezzo finale va al lavoratore: secondo un’inchiesta commissionata da Banana Link nel 2015, si tratta solo del 6,9%. Il resto dei guadagni si spalmano su tutta la catena produttiva, dove la parte del leone la fanno gli importatori (che trattengono un 20,4%) ma soprattutto i supermercati, che si prendono il 42,4%.

“Il problema come sempre sta a monte – conclude Jorge Acosta –. In Europa è in atto una lotta tra diversi supermercati per vendere a prezzi sempre più bassi. Non importa in che modo viene prodotta la merce, l’importante è che costi poco. E se un produttore non riesce a calare abbastanza il prezzo non fa niente: ce ne sarà sempre un altro disposto a farlo”.

Questo meccanismo va a discapito della qualità del prodotto, che viene trattato con più sostanze chimiche e non matura in modo naturale, ma anche dei lavoratori, che vengono pagati sempre meno e godono di pochissimi diritti. Se le banane costano così poco è perché qualcun altro paga un altro tipo di prezzo, un prezzo sociale. “Una soluzione potrebbe essere che nei paesi di importazione i cittadini esigessero dai supermercati di pagare un prezzo giusto, né più né meno – conclude Jorge Acosta –. Quello che ripetiamo sempre è: i migliori alleati dei lavoratori sono i consumatori”.