Intervista a Stefano Liberti sul suo ultimo libro I Signori del Cibo, che racconta il sistema di produzione del cibo tra dinamiche globali e realtà locali
Di Clara Capelli
Dopo Land Grabbing, il giornalista e scrittore Stefano Liberti torna a occuparsi di globalizzazione e mercato alimentare con il libro I Signori del Cibo, viaggio per il mondo lungo quattro filiere alimentari (carne di maiale, soia, tonno e pomodoro). Il lavoro di ricerca e documentazione di Liberti è davvero impressionante. Da Shuanghui in Cina al North Carolina, dal Mato Grosso alle campagne del Ghana, si ricostruisce nel dettaglio il percorso di produzione e distribuzione del cibo a livello internazionale, in un continuo passaggio tra macrodinamiche capitalistiche e conseguenze a livello micro nei diversi angoli del globo.
Ne risulta un ricchissimo quanto preoccupante quadro popolato da multinazionali attive su scala mondiale, grandi attori come l’Unione europea con le loro agende economiche, produttori e realtà locali schiacciati dalla globalizzazione, piccoli coraggiosi resistenti che si oppongono al modello dominante. Un volume che combina molto bene la cura dell’analisi con la passione del racconto.
Nel libro si ricostruiscono quattro filiere alimentari tra dinamiche globali e ripercussioni locali in diversi angoli del mondo. L’elemento in comune, il fil rouge, sono le cosiddette “aziende locusta”, multinazionali e società finanziarie che hanno fatto della terra e del cibo delle commodities, oggetti di transazioni economiche. Può spiegare di cosa di tratta e perché le definisce “locuste”?
Tutte le filiere di cui parlo sono caratterizzate dalla concentrazione di un numero limitato di attori che ho definito “aziende locusta” per l’approccio dannosamente estrattivo che hanno verso l’ambiente e il territorio.
Queste aziende, come la statunitense Cargill, operano a livello globale sfruttando le economie di scala e sono in buona sostanza il prodotto dell’affermarsi della finanza nella produzione del cibo nel mondo globalizzato.
L’obiettivo di queste multinazionali è ovviamente la massimizzazione dei profitti attraverso l’abbattimento dei costi, producendo per esempio dove la manodopera costa meno. La priorità è la redistribuzione dei profitti agli shareholders, non la sostenibilità ambientale e sociale di questo modello. Dall’altra parte, il capitale speculativo-finanziario ha assunto un’importanza preponderante, modificando i meccanismi di funzionamento del mercato alimentare globale. Alla Borsa di Chicago si negoziano i contratti su diverse materie prime, che diventano poi oggetto di speculazione, determinando enormi flussi di liquidità a vantaggio degli operatori finanziari.
Tradizionalmente il capitalismo americano ha dominato questo gioco, ma altri attori si stanno progressivamente affermando sul mercato, a cominciare dai cinesi. Il sistema di capitalismo di stato di Pechino spinge infatti gli investitori cinesi a indirizzare la liquidità verso il settore alimentare.
La Cina occupa una parte importante del libro, sia per il ruolo che sta giocando nella globalizzazione del cibo, sia per la pressione considerevole che i consumi cinesi – in crescita – esercitano sulle risorse naturali domestiche e mondiali. Quali sono le prospettive per il futuro?
Quest’anno la cinese ChemChina ha annunciato di voler acquisire la svizzera Syngenta, multinazionale dell’agrochimico che produce sementi e diversi prodotti OGM. Questa mossa indica quanto prioritaria sia per il governo cinese la capacità di far fronte ai crescenti consumi alimentari del Paese, adottando una serie di strategie e misure per assicurarsi le risorse necessarie a tale scopo.
Sono in particolare i consumi di carne a destare preoccupazione, ancora bassi rispetto a quelli statunitensi ed europei (attualmente in calo) ma sensibilmente in crescita. Il consumo di carne in Cina implica anche un’affermazione del proprio status sociale e del proprio benessere economico. Per un governo come quello cinese, assicurarsi il consenso della popolazione anche attraverso l’aumento dei consumi alimentari è una questione cruciale, un fattore importante per le dinamiche che descrivo nel libro, dall’ingresso della Cina nelle filiere alimentari mondiali – in particolare del maiale e della soia – alle distorsioni che questo provoca a livello globale, come l’inquinamento massiccio e l’industrializzazione feroce della produzione alimentare.
È difficile fare previsioni, ma a mio avviso il trend dei prossimi 10-15 anni sarà in crescita. Prima o poi, comunque, si comprenderà che non ci sono risorse sufficienti sul pianeta per sostenere tali abitudini alimentari, anche in Cina.
Altro elemento chiave è la politica economica europea verso i Paesi africani, di fatto ridotti a svendere le proprie risorse – penso al caso del pesce nel terzo capitolo – oppure divenuti mercati dei beni alimentari europei, vedendo spazzata via la produzione locale. Tu tracci una correlazione tra queste politiche e alcuni flussi migratori che interessano l’Europa.
L’immigrazione è un fenomeno multifattoriale, sono molteplici le ragioni che spingono una persona a migrare. E va precisato che i flussi migratori attuali sono numericamente meno importanti di come vengono descritti e percepiti. Ciò detto, l’apertura dei mercati negli ultimi vent’anni ha infatti riversato un’enorme quantità di beni di ogni tipo nei Paesi africani, mettendo in crisi diverse produzioni locali. Lo stesso si può osservare rispetto alle politiche UE sulla pesca, che dal Marocco all’Angola hanno severamente colpito i settori ittici locali, aumentando di fatto miseria e povertà.
Questo può essere considerato come un push factor alla migrazione in Africa, dalle campagne verso le grandi città – andando a ingrossare le fila del sottoproletario urbano – fino alla migrazione verso l’Europa. Il legame non è necessariamente di tipo diretto, ma, come cerco di spiegare nel libro, quando si adottano certi tipi di politiche è fondamentale essere consapevoli delle conseguenze che si potrebbero causare.
Nel libro racconti molte storie di Davide che si oppongono a Golia, piccoli produttori che sfidano le aziende locusta. Trovi che questa strategia sia sostenibile, anche come alternativa all’autarchia alimentare che tu indichi andare in una direzione diversa rispetto alla storia dell’uomo?
Nel corso delle mie ricerche per il libro ho avuto modo di conoscere numerose esperienze interessanti nei settori del biologico o delle filiere corte che si oppongono al modello dominante. Sono settori in crescita, ma comunque di nicchia. E resteranno di nicchia perché in un mondo globale con delle aziende che operano in tutti gli anelli della filiera – dalla produzione di massa al trasporto fino alla commercializzazione e alla distribuzione organizzata – è difficilissimo che possano diventare la realtà dominante.
Dall’altra parte, l’autarchia alimentare non è praticabile, dipende moltissimo da dove vivi. Pensiamo per esempio a paesi come l’Islanda o l’Arabia Saudita, che sono segnati da condizioni ambientali proibitive. Si tratta inoltre di una visione anti-storica, perché il cibo si è sempre mosso fin dall’epoca degli antichi romani. Non come ora, ma lo scambio e il trasporto di cibo sono una costante della storia dell’uomo. La differenza con l’oggi è che questi movimenti non sono regolati da attori pubblici, ma da grandi gruppi del settore privato, che curano principalmente i propri interessi.
Credo che la via più sensata sia pensare ad accordi commerciali con un intervento pubblico per contenere o ribilanciare distorsioni e perdite. Ed è fondamentale la consapevolezza dei consumatori per evitare certi tipi di acquisti. La strada realisticamente più praticabile è quella che garantisce la sicurezza alimentare di tutti con un buon grado di sovranità alimentare che ammette lo scambio di cibo in modo più sostenibile.
Cosa ci puoi dire dei movimenti di protesta a queste dinamiche? Nel libro si riflette più volte sul fatto che i piccoli produttori locali siano di fatto inconsapevoli delle dinamiche globali, finendo per prendersela con chi non ha responsabilità alcuna in questo gioco.
Ognuno vede il proprio pezzetto, ma non vede gli altri né ha una visione d’insieme. A diversi produttori locali che ho incontrato – non tutti, ovviamente – sfugge la complessità delle cause della loro crisi. Cause che vengono da lontano. Prendiamo per esempio il caso dei piccoli produttori di pomodori del Ghana che riporto nel libro. La loro crisi deriva dalle importazioni di prodotti italo-cinesi, eppure molti sono convinti che la responsabilità sia dei coltivatori del vicino Burkina Faso.
Mancano i corpi di intermediazione che possano fare advocacy o che diffondano studi per aumentare consapevolezza e sensibilità rispetto a questi temi. Ed è sicuramente un punto su cui si deve riflettere.