Estrid ha poco più dei miei anni, il viso rilassato, senza un filo di trucco, e due magnifici occhi verdi profondi e vicini tanto da sembrare una figura mitologica a metà tra un elfo ed un pesce. Si, ho sempre pensato che gli islandesi somiglino a dei pesci.
Di Nicolò Cesa
La incontro al museo d’arte di Reykjavik, avrà lei il compito di raccontarmi l’arte islandese. Prima di partire un mio caro amico mi aveva chiesto se in Islanda ci fossero o meno dei musei d’arte, vista la lontananza con tutto ciò che riguarda il mondo – e i suoi percorsi culturali e sociali – e la giovane storia dell’isola. Mi era venuta l’idea di rispondergli con le parole di Hlynur, il protagonista di 101 Reykjavik, del regista islandese Baltasar Kormákur, che rivolgendosi ad un amico dice: “Il mercato delle pulci è l”unico serio museo d’arte a Reykjavik: qui si possono trovare i grandi tesori culturali d’Islanda”. D’altronde oggi abbiamo un’idea distorta di quell’isola sperduta in mezzo all’Atlantico e a pochi chilometri dal Circolo Polare Artico. Ce la immaginiamo ricca, totalmente priva di corruzione, un’oasi felice e perfetta lontana dalle discussioni riguardanti le disuguaglianze, il precariato e i diritti, tipiche dei paesi della parte sbagliata d’Europa.
C’è sicuramente del vero in questa narrazione, anche se pochi sanno che l’Islanda fino a pochi decenni fa era uno degli stati più poveri e problematici d’Europa.
Un paese che per anni non ha potuto permettersi il lusso di pensare all’arte, i cui abitanti hanno sempre inteso la natura – il mondo e la vita – in senso radicalmente leopardiano.
Immaginatevi un paese governato dalle dure leggi della natura, in cui le persone – al posto del caffè – bevono un amaro impacco di licheni, ed il cui vento e le frequenti tempeste obbligano a tenere la testa bassa, a centellinare le parole ed i discorsi, a non guardarsi in faccia; in cui i vulcani rappresentano una minaccia reale alla vita per molti secoli e, non a caso, alcuni di essi prendono il nome dalle donne che nel medioevo hanno compiuto atti deplorevoli. Un paese fatto di uomini che si rivolgono a Dio, chiedendogli che avessero fatto di male per meritarsi la condanna di vivere in questa parte di mondo (lo stesso islandese del dialogo leopardiano afferma “tengo fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere”).
Com’è successo che, nel giro di pochi anni, quest’isola abbia subito la metamorfosi da terra della condanna a luogo magico?
Oggi la sogniamo, la desideriamo e l’Islanda occupa nel nostro immaginario collettivo (e privato) il luogo del ritorno alla “vita vera”, all’essenzialità del mondo e delle cose. Che ruolo ha giocato l’arte islandese in questa radicale trasformazione?
Il merito va certamente a Jóhannes S. Kjarval, un giovane pescatore proveniente da una famiglia povera che volle a tutti i costi fare dell’arte la propria ragione di vita e che, per primo riuscì a scovare – in quella matrigna e severa natura – la bellezza. Quella che è da sempre stata la peggiore delle condanne per gli abitanti di questa piccola isola a nord di tutto, per Kjarval è innanzitutto una fonte di bellezza. Così inizia a dipingerla: dipinge personaggi leggendari e paesaggi ma soprattutto gli elfi, ovvero quelli che per gli islandesi sono huldufólk, “gente nascosta”: gente vestita bene, che veniva da lontano indossando i colori del mondo, con gusto e sfarzo, nascosta però in un mondo parallelo.
La gente nascosta è (forse) il frutto dell’immaginazione di un popolo rimasto per secoli lontano da tutto (immaginarsi l’altro mondo era un modo per andare oltre le dure stagioni, la solitudine e la povertà). Ma l’arte, d’altronde, non è proprio questa fuga?
Kjarval rappresentava tutto ciò attraverso uno stile inconfondibile che intreccia elementi assurdi e simbolisti. Molte delle sue opere uniscono il cubismo all’astrattismo e, questa promiscuità stilistica, rappresenta proprio la cifra dell’attività di quello che oggi è considerato il pittore più importante d’Islanda. I suoi quadri sono presenti nelle case dei ricchi islandesi ma anche in quelle della gente comune: non di rado infatti amava riconoscere un banale favore (ad esempio un passaggio in auto per raggiungere un determinato posto nella natura, in cui si sarebbe fermato a dipingere) con una sua opera.
Capire Kjarval vuol dire capire il senso dell’arte in Islanda; esso segna un prima e un dopo (oggi tutti gli artisti islandesi prendono spunto da lui e la natura stessa – da essere condanna – è divenuta fonte di ispirazione per musicisti, cantautori, poeti, scrittori, registi e pittori. La stessa Björk
gli ha dedicato un brano, nel suo album d’esordio del 1977).
In Islanda occorre lasciarsi alle spalle i musei rinascimentali, le grandi opere italiane ed i musei francesi e l’unico modo per misurarsi con la grandezza di questo paese, minuscolo ma in grado di rivelare – come appunto colse Leopardi – è quello di cogliere le contraddizioni del rapporto universale ed eterno tra uomo e Natura, che può essere allo stesso tempo condanna e motore di bellezza.
Anche da questo punto di vista l’Islanda ha qualcosa da insegnarci: ci fa accorgere dell’imperfetta bellezza del mondo, a guardarlo con occhi diversi.
Ci insegna che quella metamorfosi è possibile e che dipende solo da noi; che il bello risiede innanzitutto nelle condanne, nelle contraddizioni e nei nostri occhi. Era questa, dopo tutto, l’urgenza filosofica e narrativa di Leopardi che i professori dei licei spesso non riescono a raccontare. Ma è normale, penso, mentre parlo con Estrid, “anche gli islandesi non l’avevano capita quella lezione. Non è così semplice”. E al mio amico che mi chiedeva dei musei d’arte d’Islanda consiglierei di meditare di fronte a queste distese e ad immaginarsele durante una bufera di neve o un’eruzione vulcanica. Gli chiederei: riesci a vedere il popolo nascosto tra le fessure di quelle rocce vulcaniche? Lo vedi quel verde del muschio che copre le distese laviche? Ti affascina quel mare, che nei fondali nasconde i corpi dei pescatori o il vento perenne che non rende possibile la vegetazione – e difficile la vita – sull’isola?
Proverei a spiegarglielo ma poi gli consiglierei di andare al museo Kjarvalsstaðir, uno dei tre siti che compongono il Museo d’arte di Reykjavík, il Listasafn Reykjavíkur.
Saluto Estrid e cammino senza meta per le vie di Reykjavik. Faccio sempre così in viaggio quando vengo a conoscenza di un concetto, dell’esistenza di un posto o di una storia che mi affascina particolarmente. E penso: è vero che con l’arte non si mangia, si fa molto di più: si sopravvive al mondo.