Incontro con sette palestinesi che hanno deciso di cambiare la loro terra grazie al loro lavoro quotidiano
di Irene Negri
Un ingegnere meccanico quadrilingue riciclatosi guida turistica. Un antropologo d’affari dalla cittadinanza olandese. Un commerciante di monete antiche sedicenne, primogenito di dieci. Un musicologo e professore universitario laureato a Barcellona e il suo amico, direttore di una ONG e creatore dell’unico festival culturale del suo Paese. L’erede di una fabbrica di sapone a conduzione famigliare da 400 anni. Il receptionist dell’unica porta aperta a ridosso di uno dei muri più famosi del mondo. Cos’hanno in comune Talal, Mahmoud, Ayham, Habeeb, Hakim, Ahmed e Sayd*?
I miei interlocutori sono sette persone diverse per età, competenze e personalità, ma anche sette palestinesi con un obiettivo condiviso: cambiare la Palestina da dentro, dalle loro città natali di Betlemme, Hebron, Nablus, Jericho, Sebastia. L’impresa è tutto fuorché facile.
La Cisgiordania, o West Bank, annovera una varietà di problemi che va ben oltre la nota gamma di difficoltà politico-identitarie e sfocia dritta in questioni di quotidiana rilevanza quali siccità, emigrazione, depressione diffusa, disoccupazione al 27% e un reddito medio procapite annuo che si aggira intorno ai 2000 dollari. Per chi ha avuto la possibilità di studiare all’estero tramite fondazioni apposite e borse di studio umanitarie, la scelta di tornare per restare è ancora meno scontata. Eppure! – le storie che ho l’onore di ascoltare ed osservare sono di indiscutibile valore, dimostrazione ultima che di necessità virtù.
Sayd è il primo che incontro, seduto ad una scrivania all’ingresso di Wi’am, centro palestinese per la risoluzione e trasformazione del conflitto, situato all’ombra del muro di otto metri che separa Betlemme dalla contesa Gerusalemme. Quella stessa porzione di muro porta il segno del lavoro anticonformista di Banksy, ma è un messaggio diverso ad attirare la mia attenzione: “vieni a trovarci, offriamo un tè e due chiacchiere”. E così dalla terrazza con vista su altalene e filo spinato apprendo le finalità di Wi’am: “dal 1994”, spiega Sayd, “cerchiamo di essere un polo di speranza per chi vive sotto occupazione, di promuovere una cultura universale di accettazione e non-violenza e di facilitare processi di mediazione sia a livello nazionale che regionale e internazionale”.
Tra i servizi in offerta proposte di turismo consapevole, laboratori di empowerment femminile, programmi di scambio per giovani e attività di riduzione del trauma infantile.
A ragazzi e bambini si rivolgono anche Project Hope, la comunità no-profit diretta da Hakim, e la scuola comunale di musica dove insegna Habeeb quando non è all’università. Entrambe si trovano a poca distanza dal centro storico di Nablus e mi stupisce la bellezza dei loro ambienti, messi a disposizione da una delle famiglie storiche della città. Con le sue quaranta sedi operative e oltre duemila bambini coinvolti ogni settimana in città, paesini e campi di rifugiati della zona, Project Hope è l’organizzazione di volontariato più grande della Palestina e vanta svariati riconoscimenti internazionali – tra i quali un inaspettato premio da 10,000 dollari per un’intervista con la rete sudcoreana di Buddhist TV.
Alle pareti fanno bella mostra i poster del festival culturale di quest’anno, cinque giornate di attività proposte da artisti provenienti da dodici Paesi, in collaborazione con sponsor esclusivamente in ambito sociale e culturale; sugli scaffali, i fumetti realizzati annualmente dai ragazzi più grandi per dare sfogo a sogni e paure, e gli album delle partecipanti al corso di fotografia. Mi colpisce l’evidente sensibilità di Hakim nel guidare il lavoro della ONG: “I volontari stranieri sono tanti, dalla fine dell’estate ne sono arrivati più di cento”, racconta, “ma li affianchiamo sempre a volontari del posto affinché facciano da ponte linguistico e culturale. A seconda delle competenze e disponibilità di ognuno organizziamo laboratori diversi e, se l’affluenza è buona, li ripetiamo finché tutti gli interessati hanno avuto la possibilità di partecipare. Andiamo noi dai bambini, sappiamo quanto è importante facilitare la loro partecipazione in ogni modo”.
La scuola di Musica
Diversa, ma simile negli intenti, la situazione della scuola di musica. Habeeb mi mostra l’allestimento della nuova sala prove all’interno del Centro Culturale per Bambini del municipio: il progetto è relativamente recente e al momento gli unici strumenti disponibili sono un pianoforte, una batteria e alcuni tamburelli, ma Habeeb è d’accordo con un’azienda di sua conoscenza che ha accettato di dare in affitto ai piccoli allievi violini e chitarre a prezzi di favore. La scuola offre otto ore mensili di istruzione musicale di qualità a soli 150 shekels (meno di 40 euro), “un sogno d’infanzia realizzato” per Habeeb. E un’alternativa importante a pomeriggi senza scopo, visto che qui la scuola dell’obbligo prevede solo quattro ore di lezioni giornaliere e che non tutti possono permettersela, perlomeno non fino al termine degli studi.
Di quei “non tutti” sospetto faccia parte Ayham, che ho occasione di conoscere mentre ammiro i resti grecoromani semi-abbandonati di Sebastia; ma dall’alto dei suoi sedici anni e della sua umile, evidente intelligenza è chiaro che il ragazzo sa come impiegare il suo tempo per assicurare un futuro a sé stesso e ai suoi nove fratelli minori. “Da un po’ di tempo lavoro come idraulico e due anni fa ho comprato un metal detector da un americano che stava a Tel Aviv; così ho iniziato a trovare queste”, mi mostra il suo tesoro nella mano grande ma ancora paffuta.
“Le so riconoscere tutte: greche, romane, ottomane… Alcune monete valgono anche 3000 dollari. Le pulisco con il succo di limone e poi le vendo ai collezionisti”. Me ne regala una, piccola e scura: la terrò cara.
Considerate le sue doti, forse un giorno anche Ayham sarà un uomo d’affari affermato come Mahmoud o Ahmed. Mahmoud è un cinquantenne dalla generosità esagerata che insiste per prestarmi la sua bicicletta a Jericho. A prima vista potrebbe sembrare un venditore di banane e melograni come tutti gli altri, ma ci mette poco a lanciarmi una sfida linguistica che scuote le mie impressioni. Tra arabo, tedesco, inglese, francese, olandese (che non so) e italiano (che non sa), mi rivela il trucco: è lì in vacanza, tiene il banchetto per passare il tempo; normalmente gestisce una ditta che esporta abiti mediorientali, adatti a chi è di fede islamica, in Europa. Ha studiato antropologia a Rotterdam ma, dopo aver ottenuto la cittadinanza e quindi la libertà di movimento dentro e fuori dai territori palestinesi, ha deciso di dedicarsi al business per aiutare l’economia della sua madrepatria. Da buon businessman critica, tra l’altro, la legge del 1994 che vieta agli israeliani l’ingresso in Palestina: “la segregazione, i ghetti, l’apartheid non hanno mai aiutato nessuno”.
Ahmed è più parco di dettagli e opinioni personali, ma altrettanto entusiasta nel presentare la sua linea di impiego – la fabbrica di sapone naturale più famosa di tutto il Levante, orgoglio famigliare dall’inizio dello scorso millennio e attiva nel cuore di Nablus fino al recente trasferimento per facilitarne l’espansione. La mezz’ora che segue lo vede dedicato ad una minuziosa descrizione di ogni singola fase di produzione del sapone a base di olio d’oliva, che negli ultimi anni si è personalmente impegnato a modernizzare e adattare ai mercati occidentali pur senza fondamentalmente alterarne la secolare tradizione.
I suoi sforzi hanno dato frutto: ogni ottobre, racconta, un gruppo di medici svedesi si presenta alla fabbrica per acquistare in blocco sapone liquido e saponette per la propria clinica; e così altri clienti fedeli, oltre ai turisti di passaggio.
Certamente apprezzabile è il consistente uso di olio di oliva extravergine palestinese, che supporta quel 12% della popolazione dedito all’agricoltura – anche se, Ahmed ammette, “nel 1971-72 leggi sfavorevoli ci avevano costretto a importare olio da fuori, e allora ci eravamo rivolti a voi italiani”.
Vorrei che, come Ahmed ma anche Mahmoud, Ayham, Habeeb, Hakim e Sayd, anche Talal potesse avere riscontri concreti del suo operato; riscontri che vanno oltre le mance che riceve dai turisti di turno e i selfie con loro che pubblica su facebook in una tenace autodocumentazione della speranza. Ma le circostanze del suo quotidiano non lo permettono.
La vita a Hebron, dove è nato e cresciuto, è più complessa che nelle altre zone: la città più popolosa della West Bank è spaccata in due dalla Ghost Town, il quartiere fantasma imposto dal governo israeliano per dare spazio ai coloni ebrei ultraortodossi che desiderano stabilirsi lì.
Solo i palestinesi proprietari di edifici interni al quartiere vi sono ammessi, agli altri tocca camminare sulle tombe dei propri avi per passare da una parte all’altra del centro. Questo e altro imparo proprio da Talal, mia guida ufficiale, che grazie al ristorante (ormai fallito) dei suoi genitori passa il test degli onnipresenti soldati israeliani: è un ingegnere meccanico laureato in Ucraina, parla arabo, russo, ucraino e inglese, ma il deteriorarsi della situazione nei luoghi a lui più cari l’ha portato a tornare per farsi tramite tra il mondo di fuori e quello di dentro, tra il quartiere fantasma e il resto di Hebron.
La sua missione è mostrare al mondo la sua realtà e lo fa attaccando bottone con quella parte di mondo che gli arriva a portata, affastellando dati e narrative storiche, sperando che il visitatore riporti quanto appreso ai suoi conoscenti e confidando nella possibilità che magari, prima o poi, qualcosa cambierà di conseguenza – possibilmente in meglio. Non chiede soldi, ma riconoscimento; non gratitudine, ma identità.
*alcuni nomi sono di fantasia