In Myanmar è in atto un’aggressione della quale la comunità internazionale parla in colpevole ritardo
di Ejaz Ahmad, tratto da FrontiereNews
I Rohingya sono un gruppo etnico di fede islamica che vive principalmente nel nord della Birmania, al confine col Bangladesh. Non sono riconosciuti come minoranza etnica, linguistica e religiosa e vivono in una situazione di estrema povertà ed isolamento sociale essendogli precluso qualsiasi impiego pubblico o ruolo nella società birmana.
I Rohingya (una comunità di circa 800mila persone) sono perseguitati da militari, politici e monaci buddisti nazionalisti. Più di metà della popolazione Rohingya è fuggita dal paese per salvare vita, beni e familiari. Cinquecento mila vivono in Arabia Saudita come immigrati temporanei, centomila si sono rifugiati in Tailandia , dove non godono di nessun diritto di asilo politico. Duecentomila Rohingya sono arrivati in Pakistan dopo la separazione indo-pakistana e infine quarantamila sono scappati in Malesia.
I Rohingya si insediarono in Birmania, o Myanmar, durante il colonialismo inglese in India. Parlano una lingua di ceppo indoeuropea.
I birmani li considerano bengalesi ma allo stesso tempo i bengalesi non li accettano come connazionali. Questa minoranza sta vivendo drammi simili a quelli di palestinesi e tibetani; però a differenza loro non ha trovato voce e rappresentazione nei media.
L’odio contro i Rohingya non è nuovo in Birmania, anzi è profondamente radicato nella storia del paese. Dal 1998, durante la dittatura militare, vi è stata un’escalation di violenza nei loro confronti, così come la tendenza a stimolare conflittualità tra buddisti e musulmani per non far emergere l’esasperazione delle popolazioni nei confronti del regime militare.
È stata attuata una e propria propaganda contro di loro tramite stampa e internet. Sono stati distribuiti in varie zone del paese libri, cd, dvd e poster per fomentare attacchi e aggressioni da parte della gente comune. I maggiori episodi si sono avuti a Mandalay nel 1997, a Taungoo nel 2001 e a Meikitila nel 2013.
Nel 1852 la Birmania era passata sotto il dominio inglese e con i colonizzatori britannici erano arrivati anche immigrati indiani. Molti di loro erano commercianti, poliziotti e lavoratori che in poco tempo avevano acquisito un ruolo sociale in Birmania. I birmani di conseguenza li percepivano come una minaccia per la propria cultura e religione.
Oggi i sentimenti sono simili, i nazionalisti buddisti, le élite politiche e i leader religiosi vengono accusati di intolleranza e odio per le campagne che invitano i cittadini a boicottare i musulmani Ruhingya dalla vita sociale, politica ed economica, e addirittura a non contrarre matrimoni misti.
Nel 2013 anche il monaco buddista Ashin Wirathu ha lanciato una campagna contro i Rohingya. Grande sostenitore del movimento 969 o Rete Nazionale per Proteggere il Buddismo, i sui sermoni sono famosi e ormai virali su YouTube. Dopo anni di propaganda e incitamento all’odio è nata una vera e propria caccia ai Rohingya. Vi sono stati episodi di incendi e di distruzione di moschee, abitazioni e negozi.
Essendo una piccola comunità, i Rohingya non riescono a contrastare questi atti e sono destinati ad abbandonare le proprie terre. Ogni tanto fuggono con piccole imbarcazioni verso la Thailandia che, come l’Indonesia e la Malesia, applica una decisa politica di respingimento (ci sono stati episodi di barche affondate dai thailandesi).
I Rohingya vivono da generazioni in Birmania senza essere considerati cittadini.
Anche Aung San Suu Kyi, leader riconosciuta a livello mondiale per la difesa dei diritti umani e il contributo alla fine della dittatura, non riesce a placare questa tendenza discriminante che dal 2012 è sfociata in pratiche di violenza e persecuzione.
Se la comunità internazionale non interverrà, i Rohingya potrebbero ben presto estinguersi. Secondo i rapporti delle Nazioni Unite si tratta di una delle minoranze più perseguitate al mondo. Per questo motivo dobbiamo lanciare una campagna internazionale per salvare i Rohingya. Il titolo? Io sono Rohingya.