di Antonio Marafioti
“Yes we can”. Si è chiusa così come era iniziata l’avventura presidenziale di Barack Obama. Il mantra della sua prima campagna presidenziale, correva l’anno 2007, è diventato l’eredità politica che il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti ha voluto consegnare al suo popolo al termine del suo ultimo discorso da capo dell’esecutivo. Cinquantuno minuti per ripercorrere gli otto anni della propria amministrazione e salutare un’ultima volta, da presidente, i suoi concittadini. Li aveva invitati lui stesso nei giorni scorsi con una lettera in cui scriveva: “sarà un modo per dirvi grazie per questo incredibile viaggio, per celebrare i percorsi con cui avete cambiato in meglio questo paese negli ultimi otto anni”.
Al McCormick Place di Chicago, simbolo della sua rielezione del 2012, lo hanno accolto in 20mila. “Hello Chicago, It’s good to be home”, ha detto il presidente arrivato sul palco sulle note di City of Blinding Lights degli U2.
Sembrerebbe di guardare le immagini della festa per un’elezione vinta, per le speranze dell’era pre-Obama. Invece le lacrime della sua gente, della sua città, sono quelle malinconiche di un addio. In fondo il 2007 è lontano, i capelli sono grigi e la retorica è quella di un politico non più gravato dal peso di dover convincere qualcuno. Anche a chi gli grida “Four more years”, risponde con i classici passaggi stilistici della sua oratoria: pausa, sguardo attento, sorriso grande e risposta secca: “non lo posso fare”. Questa volta non ci sono sondaggi da osservare, questa volta il presidente non è un politico che conta le percentuali, ma un padre nobile della patria che traccia un bilancio e ringrazia il suo popolo.
“Stanotte tocca a me dire grazie. Sia che ci siamo incontrati personalmente o che siamo stati d’accordo o no. Le mie conversazioni con voi, il popolo americano, mi hanno consentito di essere onesto, ispirato e di continuare il mio lavoro. Ogni giorno ho imparato qualcosa da voi. Mi avete reso un presidente migliore, un uomo migliore”, ha detto Obama.
Una storia iniziata a Chicago
Le prime battute sono dedicate proprio alla sua Chicago, palestra di vita e di politica, nonché capitale di quell’Illinois che prima di diventare presidente rappresentò fra seggi del Senato. “Quando sono arrivato a Chicago per la prima volta ero appena ventenne e cercavo ancora uno scopo per la mia vita. Vivevo in un quartiere non molto distante da qui, dove lavoravo con i gruppi di chiesa nelle ombre delle acciaierie chiuse. Qui è dove ho imparato che i cambiamenti sono possibili solo quando si coinvolgono le persone comuni. Quando le persone si uniscono per chiedere qualcosa. Dopo otto anni come vostro presidente credo ancora in questo principio. E non lo credo soltanto io, è il cuore pulsante dell’ideale americano. La nostra coraggiosa esperienza di autogoverno”.
Già nella Storia
L’incedere del discorso è di ampio respiro, quello di chi sa di dover richiamarsi a una Storia che gli ha già fatto posto fra le pagine dei libri di scuola. “È la convinzione che siamo tutti stati creati come esseri uguali e che il nostro creatore ci ha dotati di diritti certi e inalienabili, tra cui la vita, la libertà e la ricerca della felicità”. Poi, cita il preambolo della Costituzione americana, sostenendo che “questi diritti sono evidenti, ma noi, il popolo, attraverso lo strumento della democrazia possiamo creare un’unione più perfetta”.
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Il bilancio di otto anni di governo
C’è spazio, come pronosticato alla vigilia, per i migliori risultati politici ottenuti nel corso degli otto anni del suo governo. “Se otto anni fa vi avessi detto che l’America sarebbe stata in grado di invertire una grande recessione, far ripartire la nostra industria dell’auto e creare il più grande numero di posti di lavoro nella nostra storia…se vi avessi detto che avremmo aperto un nuovo capitolo con il popolo cubano, bloccato il programma di armamento nucleare iraniano senza sparare un colpo, ed eliminato la mente dell’11 settembre…se vi avessi detto che avremmo raggiunto l’uguaglianza del matrimonio, e assicurato il diritto all’assicurazione sanitaria per altri venti milioni di nostri cittadini; mi avreste potuto dire che avrei aspirato a un po’ troppo. Ma questo è ciò che abbiamo fatto. Che avete fatto. E oggi l’America è un posto migliore e più forte di quando abbiamo iniziato”, ha detto il presidente.
Una transizione facile
Poi il fairplay politico nei confronti della nuova amministrazione che si insedierà il prossimo 20 gennaio. “Tra dieci giorni il mondo vedrà una nuova democrazia: il pacifico trasferimento di poteri da un presidente liberamente eletto a un altro. Mi sono impegnato verso il presidente eletto Trump ad assicurare la più facile transizione possibile, proprio come il presidente Bush ha fatto con me. Perché dipende da tutti noi fare in modo che il nostro governo possa superare le diverse sfide che abbiamo di fronte”.
La giustizia economica
Una delle tante sfide è proprio quella della giustizia economica alla quale Obama si richiama citando l’1% della popolazione più ricca entrata diverse volte, in passato, negli slogan di movimenti popolari come Occupy Wall Street. “Una rigida disuguaglianza è corrosiva per i nostri principi democratici. Mentre l’1% ha accumulato una quota maggiore della ricchezza e del reddito, troppe famiglie, nei centri urbani e nelle contee rurali, sono state dimenticate lasciando che si convincessero che il gioco sia definito contro di loro, che il loro governo serve solo gli interessi dei potenti. Una ricetta che aumenta il cinismo e la polarizzazione nella nostra politica”.
Un’America ancora divisa
Non potevano mancare alla lista i temi sull’odio razziale, definiti dal presidente come un’ulteriore minaccia alla democrazia del paese. “Dopo la mia elezione si è parlato di un’America post-razziale. Una visione che non è mai stata realistica. Quello della razza rimane un tema potente e spesso divisivo nella nostra società. Ho vissuto abbastanza a lungo per sapere che i rapporti fra le razze sono migliori di 10, 20 o 30 anni fa; potete vederlo non solo nelle statistiche, ma anche nei comportamenti dei giovani americani nell’ambito politico. Ma c’e ancora molto da fare. Se ci rifiutiamo di investire sui figli degli immigrati, solo perché non ci piacciono, diminuiamo le prospettive dei nostri stessi figli, perché quei ragazzi dalla pelle scura rappresenteranno grossa fetta della forza lavoro degli Stati Uniti”.
Immigrazione e Climate Change
Dopo aver affrontato il tema dell’immigrazione e invitato il popolo americano a non chiudersi in stereotipi e ricordare cosa hanno fatto per il paese gli immigrati irlandesi, italiani e polacchi, il presidente ha affrontato la questione del Cambiamento Climatico. “In otto anni abbiamo dimezzato la nostra dipendenza dal petrolio straniero, raddoppiato le nostre energie rinnovabili, e guidato il mondo verso un accordo che ha promesso di salvare il nostro pianeta. Ma senza un’azione concreta, i nostri figli non avranno il tempo di ragionare sull’esistenza del cambiamento climatico perché saranno occupati a combattere i suoi effetti”.
Lotta al terrorismo e Rispetto delle minoranze
Infine uno dei temi più attesi, quello sul terrorismo internazionale. “Abbiamo catturato decine di migliaia di terroristi, incluso Osama bin Laden. La coalizione internazionale che guidiamo contro l’Isis ha sconfitto i suoi leader e riconquistato metà dei loro territori. L’Isis sarà distrutta e nessuno di coloro che minacceranno l’America sarà mai al sicuro. È stato un onore per me essere il vostro comandante in capo”. Parole a cui Obama ne fa seguire altre che invitano alla tolleranza religiosa: “Proteggere il nostro modo di vivere richiede più dei nostri militari. La democrazia può deformarsi quando cediamo alla paura. Quindi se come cittadini dobbiamo rimanere vigili contro le aggressioni esterne, dobbiamo altresì evitare un indebolimento dei valori che ci rendono ciò che siamo. Ecco perché, negli ultimi otto anni ho lavorato per dare una base giuridica alla lotta contro il terrorismo. È per questo che respingo la discriminazione nei confronti dei musulmani americani. Ecco perché non possiamo recedere dal lotte globali – per espandere la democrazia, e i diritti umani, i diritti delle donne, e diritti della comunità LGBT – per quanto imperfetti possano essere i nostri sforzi”.
Le lacrime per Michelle
C’è un ultimo spazio, quello che sembra essere il più importante e che porta il presidente uscente alle lacrime. È quello dedicato alla famiglia e a tutte le persone che hanno fatto parte della sua avventura alla Casa Bianca, dal vicepresidente Joe Biden fino all’ultimo dei volontari. “Michelle – ha detto rivolto alla moglie – negli ultimi 25 anni non sei stata solo mia moglie e la madre dei miei figli, ma anche la mia migliore amica. Hai ricoperto un ruolo che non avevi chiesto e lo hai fatto a modo tuo con grazia, grinta, stile e buon umore. Hai fatto della Casa Bianca un posto che appartiene a tutti”. Poi alle figlie: “Malia e Sasha, siete diventate in mezzo a strane circostanze, due giovani donne. Sono fiero di essere vostro papà”. L’ultimo ringraziamento è quello per Biden: “Un grande vice presidente diventato un fratello” e per lo staff forza motrice di “cuore, carattere e idealismo”.
L’ultimo appello: “Vi chiedo di credere”
La chiusa è un appello al popolo americano lanciato poco prima che dai megafoni partisse Land of Hope and Dreams di Bruce Springsteen e Obama ricevesse l’abbraccio della famiglia e, simbolicamente, quello di una grande fetta del suo popolo. “Vi sto chiedendo di credere. Non nelle mie capacità di portare un cambiamento, ma nelle vostre”. “Vi chiedo di mantenere salda la fede scritta nei nostri documenti fondanti; quell’idea sussurrata da schiavi e abolizionisti; quello spirito cantato dagli immigrati e dai coloni e da coloro che hanno marciato per la giustizia; quel credo riaffermato da coloro che hanno piantato bandiere, dai campi di battaglia stranieri fino alla superficie della luna; un credo al centro di ogni americano la cui storia non è stata ancora scritta. Yes We Can. Yes We Did!”