Contraddizioni equadoriane

La presenza nel Paese di numerose imprese straniere, interessate alle risorse minerali e petrolifere, rischia di compromettere l’esistenza dei popoli indigeni che vivono da tempo immemorabile sulle terre oggetto di concessioni

di Francesco Martone, da Quito

Debajo de la linea ecuatorial el pecado no existe.

“Sotto la linea equatoriale il peccato non esiste”. Così dice un vecchio adagio ecuadoriano, quasi a ricordare un innato spirito di insubordinazione, trasgressione, rivolta. La storia di Quito, capitale coloniale adagiata lungo una catena vulcanica nella quale svettano il Guagua Pichincha ed il gemello Rucu Pichincha, lo sta a dimostrare. Una storia ribelle, una sequela di presidenti cacciati a furor di popolo. Una città sorta attorno ad monastero francescano di San Francisco de Quito dal quale a raggiera di snodano altre chiese, la Santo Domingo, la Chiesa della Compagnia, lungo la strada delle “Sette croci” che arriva fino alla piazza del palazzo di Carondelet, sede della presidenza della Repubblica. Oggi quella piazza pullula di turisti in lotta perenne contro il soroche il mal d’altura che ti prende quando meno te lo aspetti, ti taglia fiato e gambe.

Qualche pensionato sotto il sole ardente dell’equatore gioca a carte, un paio di loro accennano con le chitarre dei pasillos tradizionali. Ragazzini indigeni lucidano scarpe, donne indigene vendono agli angoli i prodotti delle loro terre.

Diciassette anni fa la piazza era gremita di indigeni, campesinos, semplici cittadini, che pacificamente cacciarono dal paese l’allora presidente Jamil Mahuad, reo di aver accelerato la strada verso la dollarizzazione dell’economia. Il ricordo va a quei giorni concitati, le sere scandite da scaramucce tra manifestanti e polizia, negli isolati dietro Carondelet, l’aspro odore dei gas lacrimogeni, il crescendo delle mobilitazioni. A centinaia erano venuti dalle lontane comunità indigene della Sierra, a piedi, seguendo i vecchi chaquiñanes, i cammini dei chasqui, leggendarie staffette dell’impero Inca del Tahuantinsuyo, che si narra fossero in grado di portare pesce fresco di corsa dalla costa.

Arrivarono con le loro tende e le loro pignatte, per accamparsi nel parco dell’Ejido, sede della casa della cultura, oggi in fase di ristrutturazione, in una capitale che da allora è cresciuta a dismisura. L’opulento Nord, con i suoi cantieri della metro, ed edifici di taglio moderno, l’enorme sud, che si snoda per chilometri e chilometri fino quasi a valle.

Erano venuti a piedi dopo giorni di mobilitazioni in tutto il paese, ed inaspettatamente riuscirono a concludere un accordo con i militari per cacciare l’odiato Mahuad. La chiamarono la rivoluzione dei “poncho e degli elmetti”.

Da allora dopo alcune fasi di assestamento e negli ultimi dieci anni il paese è stato governato da Rafael Correa, brillante economista, giù ministro dell’economia cacciato per aver contrastato le politiche del fondo Monetario Internazionale. Memorabile il suo discorso di insediamento al Congresso di Quito, nel quale affrontò il tema del debito estero.

A capo del movimento Alianza PAIS, Correa ha governato per due mandati un paese fino ad allora in mano a élite politiche ed economiche. È difficile tracciare un quadro in bianco e nero dell’esperienza correista, che oggi si avvia ad una nuova fase, con elezioni imminenti, nelle quali Alianza PAIS candida il già vicepresidente Lenin Moreno, sostituito nel secondo mandato da Jorge Glas, più vicino alle oligarchie della costa, ed oggi candidato di nuovo alla vicepresidenza. Le destre schierano personaggi carismatici quali Cynthia Viteri, o espressione delle tradizionali classi conservatrici quali Guillermo Lasso, le sinistre di opposizione l’ex generale Paco Moncayo già sindaco di Quito, a capo di una coalizione per il cambiamento, con il suo partito Izquierda Democratica, partiti indigeni quali Pachakutik, o di sinistra maoista come Unidad Popular. Una campagna che si preannuncia infuocata.

Sullo sfondo i segnali evidenti delle contraddizioni che hanno caratterizzato l’epoca “correista”, una rivoluzione ciudadana che ha indubbiamente ravvivato lo spirito di partecipazione dei cittadini e cittadine, restituendo dignità a classi e categorie sociali fino ad allora marginali o marginalizzate. E che ora però si rivolge contro quegli stessi soggetti che rappresentarono l’ossatura del levantamiento del 1999 e dell’ascesa dell’”officialismo” correista, abbracciando un modello di sviluppo del tutto simile a quello di altri paesi di matrice capitalista.

A farne le spese sono anzitutto i popoli indigeni, la cui colpa è quella di vivere da tempo immemorabile in terre oggi assai ambite dalle imprese straniere, affamate di risorse minerali e petrolifere.

Sono stato più volte in Ecuador dal 1999, ed ogni volta ho avuto occasione e sorte di poter toccare con mano, sul campo e con i diretti interessati, le contraddizioni del modello di sviluppo che David Harvey, attento studioso delle dinamiche sociali del mercato indigeno di San Roque a Quito, ha definito “capitalismo estrattivista”. Dalle visite delle comunità impattate dal progetto di oleodotto “OCP”, alle assemblee al Puyo con le comunità indigene del Pastaza avvelenate dalle attività dell’AGIP, agli incontro con i leader della comunità resistente di Sarayaku, i sopralluoghi nel cantone Cotacachi, teatro ieri ed oggi di mobilitazioni contro l’espansione delle miniere a cielo aperto, alle comunità danneggiate dalla diga di Daule Peripa, costruita da Impregilo anche con fondi della cooperazione italiana. Pareva fossero retaggio del passato, ed invece no.

Quella che avrebbe dovuto essere una “rivoluzione” – anche della matrice produttiva – oggi si esplicita come una fase 2.0 del modello passato, con le conseguenze che ciò comporta. Distruzione dell’ambiente invece di buen vivir e diritti della Pachamama, repressione dei movimenti sociali, ecologisti ed indigeni invece di “rivoluzione” dei cittadini.

Membri di Acción Ecologica protestano contro il provvedimento di chiusura

Arrivo a Quito qualche giorno prima di Natale e mi accoglie la notizia dell’annuncio da parte del governo dell’intenzione di sciogliere l’associazione ambientalista Acciòn Ecologica, 30 anni al servizio dell’ambiente, rea di aver incitato alla violenza le comunità Shuar di Morona Santiago, che da mesi tentano di bloccare le attività di un’impresa mineraria cinese nelle loro terre ancestrali.

Negli scontri un soldato è rimasto ucciso in circostanze ancora da chiarire, ma il governo ha preso la palla al balzo per accusare – come già fatto in passato – di terrorismo chiunque si oppone i suoi piani. A Quito parte la mobilitazione in sostegno di Acción Ecologica mentre a Morona Santiago, nel territorio Nantkins, affluiscono militari in assetto da combattimento e mezzi blindati. Per un paradossale cortocircuito storico, quegli Shuar, erano gli stessi che difesero con i denti un pezzo di Amazzonia, imbevuto di petrolio in una guerra con il Perù. Eroi del “Cenepa”, veterani il cui comandante in capo era proprio Paco Moncayo. Guerrieri Arutam, abili a muoversi nella giungla. Ciononostante la risposta del governo è stata durissima: arresti, intimidazioni a donne e bambini, il loro leader in galera in carcere di massima sicurezza a Latacunga.

Almeno tre Shuar sono stati uccisi da mano ignota negli ultimi due anni per la loro resistenza alle attività minerarie. Uno dei leader, Jose Tendetza Antùn, doveva recarsi a testimoniare a Lima in un tribunale sui diritti della natura, in occasione della Conferenza ONU sul clima di tre anni fa. Lo hanno trovato morto un paio di giorni prima. E poi le notizie della militarizzazione del territorio Sarayaku, di altre zone in “resistenza”.

Da Quito si può andare in Amazzonia, poco più di mezz’ora in aereo, fino a Francisco de Orellana, e navigare le acque del Rio Coca fino dentro al parco Yasuni. Si passa per Providencia, fulcro del progetto di trasporto intermodale che dovrebbe collegare con autostrade ed una idrovia Manaus al porto ecuadoriano di Manta , e facilitare la trasfusione di risorse naturali dal centro dell’Amazzonia verso i mercati asiatici, Cina sopra tutti. Al cuore di Yasuni hanno iniziato da poco a trivellare per estrarre petrolio, in una zona che in passato era stata al centro di un esperimento innovativo di tutela dell’ambiente. L’idea era quella di lasciare il petrolio sottoterra e chiedere alla comunità internazionale una sorta di compensazione per il credito ecologico così generato, ma non se ne fece nulla perché il governo Correa era di gran lunga più interessato al petrolio. Da vendere o svendere, in anticipo o sul mercato, per i suoi programmi di sviluppo e politiche sociali. Un paradosso, drammatico, che mette in contraddizione l’imprescindibile priorità di restituzione di un debito sociale alle classi fino ad allora “escluse” e l’accumulazione di debito ecologico per le generazioni a venire.

Da Quito si possono altrimenti scendere le gole che portano verso Santo Domingo de los Colorados, e la regione produttrice di “cash crops”, banane, ananas, olio di palma. Prodotti che potranno ora accedere a tassi agevolati sulle nostre tavole – o nei serbatoi delle nostre auto come biocarburante nel caso dell’olio di palma – grazie al trattato di libero scambio con l’Unione Europea.

Accordo di recente ratificato dal parlamento ecuadoriano nonostante le proteste dei movimenti contadini indigeni e ambientalisti preoccupati dell’impatto ambientale e sociale dell’ulteriore espansione delle monocolture per l’esportazione.

Le autostrade nuove fiammanti tagliano la linea equatoriale, verso Esmeraldas, regione “afro”, squassata di recente da un terremoto, ore in auto attraverso monocolture di palma e teak. Dietro un tornante colpisce l’occhio un tubo che attraversa il crinale di una collina, preannunciato da vari cartelli di pericolo sparsi qua e là lungo la strada. È l’OCP, “Oleoducto de Crudos Pesados”, che porta il petrolio dai giacimenti nell’Oriente, verso la raffineria di Esmeraldas, una coltre fitta di torri, tubi e fiamme del flaring. Da lontano pare un girone dell’inferno, nonostante i milioni di dollari spesi per il suo potenziamento e modernizzazione. Fatto sta che quei cartelloni che annunciano benefici a pioggia per le comunità locali, ora sono sbiaditi, impolverati da strade senza asfalto, conglomerati urbani senza fogne o acqua corrente.

Volendo si può poi tornare prendendo la strada alternativa, non quella delle autostrade a sei corse vanto del correismo, ma la strada che si arrampica verso Mindo, paesaggio certo meno drammatico, con crinali dolci che portano verso quota 2800. Paesaggi subtropicali, foreste pluviali, bosques nublados, ecosistemi unici, con la più alta concentrazione di uccelli tropicali del mondo, tra cui il quetzal, con il suo canto soave ed il petto verde-azzurro. Mindo, attraversata anch’essa dal “tubo”, poi Nono e Nanegalito, fino alla Mitad del Mundo, la linea equatoriale identificata ai fine ‘700 dalla missione geodesica coordinata dal francese Condamine. Un monolite di pietra con un globo segna lo “zero assoluto”, a poca distanza la sede avveniristica di UNASUR, l’unione degli stati del Sudamerica. In lontananza i picchi innevati del Cotopaxi e del Cayambe.

Da Quito poi si prende la strada verso Nord, verso Otavalo ed Ibarra, la cosiddetta “avenida de los volcanes” attraversi campagne e lagune, serre in plastica dove vengono coltivate le rose che poi si vendono per strada sotto casa. Otavalo con il suo mercato indigeno, città vegliata da due vulcani, il “Taita” Imbabura e “Mama” Cotacachi, con le sue abitazioni a volte grottesche, in stile finto coloniale, vetri a specchio e improbabili colonnati barocchi o in stile neoclassico. Sono le case dei migranti, degli Otavalo, abili commercianti di artigianato in giro per il mondo. Ancora più su e si arriva finalmente a Urcuqui, un pugno di case intorno ad una piazza coloniale, dove domina una statua di San Giorgio. Un mural magnifica la supposta convergenza tra conoscenza ancestrale e sviluppo economico. Costeggiando il cimitero, si arriva ad un passaggio a livello, e poi in un enorme cantiere. Proprio lì in mezzo al nulla, tra le Ande si sta costruendo una città modello, Yachay.

È il sogno di Correa, una città della conoscenza, dell’innovazione, un esempio di eco-sviluppo. Per costruirla si sono drenate risorse altrimenti destinate alle altre università. Oggi funziona solo il campus con un centinaio di studenti, villette a schiera di tipo coloniale.

All’entrata del campus un cartello annuncia un workshop a cura della China Energy Company. Secondo i piani, Yachay verrà ultimata nel 2045, e dovrebbe ospitare 80mila persone, che si dedicheranno alla ricerca, alle nanotecnologie, alla bioingegneria. Allo sfruttamento cioè delle risorse genetiche che da tempo immemorabile appartengono alle comunità indigene. Una cattedrale nel deserto, una zona di libero scambio, extraterritoriale dove chi investe non paga tasse per almeno cinque anni. I video di propaganda disegnano una città avveniristica, polo di innovazione e conoscenza, fulcro dell’economia del “talento umano”. Un’auto elettrica Toyota è malinconicamente parcheggiata ad un angolo.

È la stessa identica sensazione che si prova camminando per le strade ampie e semideserte della sua “smart-city” gemella, SongDo, in Corea del Sud, legate da un accordo di cooperazione. Una nuova Hong Kong costruita su un enorme terrapieno rubato al mare, a costo di distruggere ecosistemi delicatissimi, casa per specie migratorie a rischio di estinzione. “Capitale” dell’IFEZ, “Incheon Free Economic Zone”, Song-Do è un agglomerato urbano dalle strutture avveniristiche, tuttora semideserto, e che vorrebbe essere la eco-metropoli modello per il futuro. Con i suoi canali stile Venezia, il suo World Trade Center e Central Park. Song-Do, proprio come Yachay incarna la contraddizione tra ecologia e “green economy”, corsie per le biciclette ed ecoefficienza versus l’equilibrio di ecosistemi originari. A Song-do i cantieri lavorano giorno e notte, dietro gli scheletri di cemento del cantiere andino spicca in cima ad una collina una scritta enorme a lettere bianche, identica a quella di Hollywood, “Yachay”, con la figura stilizzata di un uomo a braccia protese verso il cielo.

Salva