Cesena – Novi Sad / Dicembre 2016
di Nhandan Chirco – per No Border Camp Thessaloniki 2016
Dopo il No Border Camp Thessaloniki volevo scrivere un testo, un report o un’analisi.
Sono riuscita a scrivere solo una lettera d’amore. È questa. Senza cronologia e senza distanza. Te la mando comunque. Nhandan
Tempo staccato – staccato dal lavoro e dagli impegni familiari, staccato alle prove e le performance che mi tengono in vita. Il viaggio inizia al Romagna Center di Savignano, comincia banalmente con l’acquisto dell’attrezzatura – zaino, tenda, sacco a pelo, pila elettrica e un quadernino giallo per i contatti.
Sono mesi che aspetto di andare. Andare al mio posto, essere lì dove voglio essere, con loro – quelli con cui voglio essere.
Quelli che vorrebbero essere altrove – migrando – e invece sono abbandonati e custoditi ostinatamente nel parossismo schizofrenico e paradossale della politica europea sulla gestione dei confini. Quelli che ora sono l’umanità nella sua semplice realtà, senza mistificazioni, senza privilegi, senza parola. Ma con la forza delle azioni. Quelli che ora sono dentro il mio cuore, speranza e bellezza oltre e grazie a ogni differenza. E i compagni. Quelli che amo e rispetto perché sono lì, nel posto dove ha senso essere adesso. Gli altri sono lontani, stanno dentro i teatri, nei musei, nei locali, nelle stanze, nelle analisi sull’arte, l’attivismo, i vizi dei militanti, la complessità, l’impotenza, le contraddizioni, soprattutto alla fine il proprio scorrere meccanico del tempo incollati spalle al muro dal piccolo universo di se stessi e quei pochi intorno con cui si condividono gusti e linguaggi e gestualità.
Io non ho tempo, e non ho spazio. Io sono sul confine senza poterci essere, sono tra qui e li’ in una terra di nessuno.
Io mi sento nessun(A) e voglio andare a vedere dove sta ORA il mondo. Voglio sparirci dentro con uno zainetto sulle spalle e farmi travolgere e lasciare le ansie e le colpe del mio inquieto sognarlo. Voglio sparire e perdermi tra quegli altri che ora sono I Miei. Miei altri. Amore. E sempre paura. Paura della violenza organizzata. Non paura di viaggiare sola, non di un arrivo alle quattro del mattino in una periferia deserta e straniera, non paura di quello che può succedermi individualmente. Paura della violenza meccanica e dello scontro di moltitudini, della tecnologia premeditata delle divise antisommossa, delle cariche a comando, di lacrimogeni e spari e manganelli e soprattutto dei guanti. Dello scattare della trappola. Paura dei caschi e giubbotti antiproiettile e guanti neri (o blu scuro) indossati intenzionalmente. In particolare dei guanti indossati intenzionalmente. Paura delle frasi fatte, sonnambule, e delle loro conseguenze materiali, spirali meccaniche di energia cieca. Accecata, accecante. Mi trovo in mezzo. Mi sento sempre a un passo da me, dietro le mie spalle. Credo e non credo a quello che a quello che vedo e a quello che sento dentro. Cerco di capirmi. Mi confronto con la mia orrenda vigliaccheria. Mi sorprendo di molta stupidità circostante. Stupidità e presunzione anche dei compagni e compagne. Dei miei amati. Di quelli con cui ci siamo scelti. Di questi sconosciuti per cui ho voglia di esistere al mondo ancora nonostante tutto, nonostante le storie oscure di cani mastini lanciati su braccia inermi, braccia stanche di un viaggio infinito al buio, dal buio, al nostro buio. Sento gli assoli e i remake della nostra assemblea di centinaia e penso ci vorrebbe uno psicodramma collettivo. Chi saprebbe farlo non è qui – ma allora dove è? e cosa sta a fare?
Noi siamo QUI.
Caro H. So che tra la folla ci sei e fai quello che puoi. So che senti il limite, conosci il linguaggio, sei consapevole dei rischi e prevedi e agisci e sai di non poter mai sapere come andrà a finire alla fine.
So che sai la responsabilità di quello che hai mosso e che non puoi pretendere di controllare e nemmeno lasciare a se stesso. Una posizione paradossale, ma no, non da trickster – al contrario. Camminare sul filo, con leggerezza, in mezzo a un frastuono amato, desiderato e pronto a inghiottirti. Mi fido (solo) di te, perché sei cosciente. So che ne porterai le conseguenze e che ti metteranno tutto in conto, i tuoi, i nostri, gli altri e gli avversari. Però ci volevi qui e ci siamo. Noi, tutti esotici gli uni agli altri – chi più chi meno, universo che si muove in un cozzare di cerchi concentrici. Noi che non ci riconosciamo, che camminiamo insieme, che non ci capiamo del tutto ma non ci lasciamo comunque. E anche noi, alcuni, sappiamo evocare la forza, incutere timore, travestirci organizzarci e spingere sul limite con azioni simboliche ma concrete. Le azioni sono simboliche ma il pericolo a cui ci si espone è più che reale. E dunque le rende reali, reale il restare, reale l’avanzare, reale la commozione, reale il coraggio. Alcuni tagliano le reti. Le tagliano, le fanno crollare. Le abbattono. In prima linea, chi a viso coperto chi a viso scoperto, chi piange per i lacrimogeni e chi per gesti di gratitudine di chi ti ama oltre le sbarre e dalla prigione ti dice grazie e di resistere per lui/lei/loro.
Seguo con lo sguardo chi raccoglie pietre, urto nella fuga chi raccoglie foto, guardo con familiarità professionale di performer chi ha un costume e si trasforma in essere fantastico monocromo e senza forma – fazzoletto sulla bocca, grandi occhiali scuri da sole o da sci.
Chi a capo scoperto e un’amica per mano. Chi – anziano – ride e corre e scherza in spagnolo perché che altro fare in questa situazione di spari e fumo e tragicomico fuggi fuggi generale?
Al sesto giorno sono stanchissima, imparo a dormire come i cani in mezzo alle conversazioni, seduta al tavolo tra la gente, a riposarmi a sprazzi senza vergogna, e funziona. Vado avanti.
C’è il profilo Greco di E. e del suo compagno. Parliamo per ore con K. sedute all’angolo del campo. Parlano nelle aule, ascolto e sono cose interessanti. Ci sono gli eroi/eroine della No Border Kitchen. Ci sono R. con tanti capelli biondi e il suo amore bellissimo e di fuoco, dalla Scozia spesso nomadi per desiderio, sono una meraviglia sempre, qualunque cosa fanno, li guardo a momenti e mi sento felice. Poi all’improvviso siamo tanti, tantissime. Ci siamo tutti. Il campo risuona di molte lingue di molte voci, discorsi e canti e preghiere. Si intrecciano linguaggi di radici diverse, paradigmi sconosciuti gli uni agli altri. I migranti riempiono il campo, qui dove finalmente viviamo insieme, usciamo insieme nella città e sono le loro voci a dirci come fare. È lotta e festa e gioia nei viali e sul mare. La città è per noi, per tutti. Cammino con care compagne tutte venute da lontano, M. e N. e A.. Questa è di per se vittoria contro tutto il resto nonostante tutto. È di per se quell’altrove irraggiungibile che ora è qui. Qualcuno si tuffa in acqua perché lo vuole. Un corteo, ma è la prima volta. La prima volta che sono in un corteo così.
Come è successo? È successo – è questo che conta.
Può succedere ancora.
Di nuovo e di più.