Parigi, il centro di transito per migranti più grande d’Europa manifesta le sue debolezze
Testo e foto di Stefano Lorusso
“Dove vuoi che dormiamo? Qui fuori, per terra, sotto il ponte, tra le barriere di lamiera per proteggerci dal vento”. E’ rassegnato Ali, 26 anni, sudanese del Darfur, fuori dal nuovo “centro umanitario” voluto dalla sindaca Anne Hidalgo (Partito Socialista) nella periferia Nord di Parigi.
Da qualche giorno un centinaio di migranti sudanesi, eritrei e afgani dorme all’addiaccio tra i terrapieni di Boulevard Ney di fronte al centro, o sotto al cavalcavia del Boulevard périphérique, il raccordo autostradale che cinge tutt’attorno la capitale francese.
Il centro – costato 16 mln di euro e finanziato dal Comune di Parigi e dallo Stato francese – è stato aperto nel novembre scorso, a seguito degli sgomberi di Calais e di Place de Stalingrad, nord-est di Parigi, dove si erano accampate circa 4 mila persone. Previsto per assorbire quotidianamente l’arrivo di nuovi migranti ed evitare il formarsi di nuove emergenze sulle strade della capitale francese, il centro può ospitare fino a 400 persone, ognuna per un massimo di 10 giorni, il tempo necessario allo studio della situazione amministrativa di ciascuno. Per poi essere reindirizzati verso le strutture competenti, d’accoglienza o espulsione.
Ma il problema è che il numero di migranti ammessi quotidianamente nel centro dipende dalla quantità di interviste ai migranti che l’amministrazione riesce ad effettuare.
E qui si innesca il vero problema: a fronte di 50 interviste quotidiane – e quindi di altrettante persone che entrano nel centro -, tra i 70 e i 90 migranti arrivano ogni giorno a Parigi, secondo l’entourage della Sindaca Hidalgo. Fino a 30 persone restano quindi escluse. E così si creano lunghe, quotidiane ed estenuanti file d’attesa. Fin dalla notte i migranti si mettono in fila per poter guadagnare il loro posto per il mattino successivo. Il nervosismo è inquadrato dai manganelli scintillanti dei CRS (Compagnie Républicaine de Securité) e della Police francese, che marcia avanti e dietro con in mano i fucili. Fuori soffia un vento gelido. “Stiamo contrattando con lo Stato centrale un prossimo passaggio a 600 posti, un aumento del numero di interviste quotidiane per accogliere più persone . Il 19 gennaio apriremo un altro centro a Yvry (sud di Parigi), 400 posti dedicati alle famiglie”, dichiarano dal Comune di Parigi.
Pochi giorni fa Medici Senza Frontiere (MSF) ha accusato le forze dell’ordine parigine di “confiscare le coperte ai migranti e di disperderli con i lacrimogeni fino ad impedirgli di sedersi nelle file d’attesa per entrare al centro umanitario”. Mentre i corpi di decine di migranti vengono raccolti congelati lungo la rotta balcanica, nella scorsa settimana otto migranti sono stati ricevuti dall’équipe di MSF in stato di ipotermia. Mohammed, sudanese, ha soltanto 18 anni, negli occhi gli si legge una stanchezza infinita: “Durante le vacanze di Natale la temperatura è scesa fino a -5 gradi, noi dormivamo per strada, ho rischiato il congelamento. Avevo solo un sacco a pelo steso sul cemento ghiacciato”. Alcuni trovano riparo dalla pioggia sotto ad un cavalcavia, nel terrapieno che separa le corsie delle strada che corre ai due lati. Le operazioni quotidiane di cura di sé diventano le più problematiche. Un ragazzo cerca uno spazio di intimità per poter andare di corpo. Non ci sono bagni chimici nei dintorni. Si guarda intorno, scruta, perlustra, lo trova. Lungo il cavalcavia la vegetazione diventa più alta. Si accovaccia, di fianco a lui fila il tram, qualcuno tira fuori lo smartphone.
Nel centro operano due associazioni, vincitrici dell’appalto del Comune. Emmaus e Utopia56. “Ci occupiamo principalmente di gestire le file d’attesa, fornire dei vestiti e kit d’igiene ai migranti all’interno della struttura. Ma adesso il problema si sta spostando all’esterno. Decine di persone dormono per strada, offriamo loro coperte, cibo e bevande calde”, racconta Claire, 23 anni, che svolge il servizio civile con Utopia56. Alla sera, molti abitanti del quartiere, semplici cittadini, danno un segno di umanità distribuendo anche loro beni di prima necessità, panini e thé caldo. “In un mondo rovesciato, se fossi io quella costretto a scappare dalla Francia in Afghanistan o in Eritrea a causa di una guerra o di una carestia, vorrei trovare accoglienza al mio arrivo. I loro corpi, la loro presenza mi impone di essere solidale, non possono essere ignorati, allontanati dalla vista dei cittadini, come se fosse possibile nascondere questo problema di politica pubblica”, dichiara severo Paul, abitante del quartiere dov’è situato il centro.
Eppure la strategia messa in atto dalla Prefettura di Parigi sembra esattamente questa. Le forze di polizia hanno l’ordine di evitare la formazione di ogni accampamento sulle strade della capitale. Il 12 dicembre scorso è stato sgomberato un accampamento di 250 migranti installatosi a poche centinaia di metri dal centro. Il 9 gennaio la Police ha impedito la formazione di un campo in rue Pajol (nord di Parigi), dove alcuni migranti – supportati da membri di collettivi e associazioni – tentavano di trovare riparo dalla pioggia e dal freddo.
Questa umanità dolente attende di poter entrare nel dispositivo di accoglienza francese. Molti di loro chiederà asilo politico in Francia. Come Enaiatollah, cresciuto nel distretto di Tagab, Afghanistan. “Ho dormito di fronte a questo centro per 5 notti, alla fine sono riuscito ad entrare. Ho lasciato le mie impronte, farò domanda d’asilo qui. In Afghanistan studiavo giornalismo, i Talebani mi consideravano pericoloso. Dopo aver fatto un servizio su una ragazza stuprata da un gruppo di loro, hanno iniziato a darmi la caccia. Mi hanno torturato”. Enaitollah mostra i segni delle torture, delle cicatrici profonde gli solcano la carne, la pancia, la schiena, “vedi, sono frustate, mi hanno massacrato”. Ma inspiegabilmente sorride: “La speranza regge il mondo, io voglio continuare a studiare, forse potrò farlo in Francia, Inshallah”.