È uscito a dicembre, per la regia di Marcello Merletto, “Wallah – Je te jure”, documentario che ripercorre le tappe fondamentali del viaggio dei migranti dall’Africa Occidentale fino all’Italia.
di Andrea Colasuonno
“È stato un documentario voluto dall’OIM, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni” ci ha spiegato lo stesso Merletto. “Loro portano avanti dei programmi informativi in paesi come Senegal, Gambia, Costa d’Avorio, Nigeria, con cui raccontano ai futuri migranti quali siano i rischi di mettersi in viaggio verso l’Europa. Considerato che questi incontri non sortivano gli effetti voluti, hanno deciso di provare con qualcosa che avesse un carattere più emotivo, ecco l’idea del documentario”.
“Wallah – Je te jure” allora è uscito in 2 diversi formati. Uno dura 23 minuti e viene mostrato nei paesi di provenienza dei migranti, anche nei ghetti di Agadez o Niamey, poco prima che i ragazzi affrontino il deserto per arrivare in Libia. L’altro dura circa un’ora ed è la versione per noi occidentali. È stato proiettato a Napoli, Roma e Milano. Nell’ambito del Global Migration Film Festival, è stato visto in Olanda, Niger, Kosovo, Gibuti, Austria, Russia, Cipro, Giamaica, Usa, Slovacchia, Somalia, Irak. Infine a New York nel quartier generale delle Nazioni Unite.
Dunque l’obiettivo del documentario è quello di dissuadere la gente dal partire?
Non proprio. Anche perché, per esperienza, ti dico che non c’è modo di scongiurare queste partenze. I ragazzi se ne vanno perché è l’unica chance che vedono per ribaltare la loro situazione. Abbiamo incontrato mamme che ci hanno detto “ho perso il primo figlio perché è morto attraversando il Mediterraneo, adesso è partito il secondo”. Contrastare il fenomeno della migrazione da questo punto di vista è impossibile. Il tentativo che fa il documentario è di raccontare ai futuri migranti almeno a cosa vanno incontro. Abbiamo conosciuto gente in Niger che non sapeva neanche che ci fosse un deserto da affrontare, o che non sapeva collocarsi geograficamente. Parliamo anche di ragazzi di 15 o 16 anni, magari per niente istruiti. Il Mediterraneo è un po’ più noto perché di ciò che capita in mare giungono notizie anche a loro. Ma la parte del deserto per molti rimane un’incognita, anche se fa quasi tanti morti quanti il Mediterraneo.
Per girare lei è stato una volta in Niger e una volta in Senegal, è stato a “casa loro”. Che idea si è fatto? È una possibilità concreta quella di aiutarli “a casa loro”?
È molto molto complicato farlo a livello istituzionale. Da quello che ho potuto vedere io devo dire che non mi è rimasta molta fiducia in certa cooperazione, né negli interventi dell’Unione Europea o istituzioni simili. Per dirtene una, il Niger è il paese che riceve più soldi dall’Europa. Viene foraggiato in maniera intensiva per contrastare il fenomeno migratorio senza risultati. Considera che il Pil del Niger all’80% si basa sulle rimesse degli immigrati che lavorano all’estero. Non ci sono strade, mezzi, infrastrutture. Non c’è davvero neppure la possibilità minima, per chi volesse, di fare qualcosa. Per un giovane è veramente difficile immaginare un qualsiasi tipo di futuro.
È così che il viaggio poi non li scoraggia.
Sì, anche perché, un’altra cosa fondamentale da sapere, è che chi arriva da noi quasi sempre non trasferisce comunicazioni veritiere al proprio paese. Anche se finisce per vendere i braccialetti, o senza documenti, o a fare una vita di stenti, comunque manda regali a casa, invia soldi, sul suo profilo facebook ha foto di lui felice che ostenta qualche forma di ricchezza. È escluso che ammettano di fronte a loro stessi e agli altri di aver fallito. Non possono farlo. Il viaggio costa tantissimo e a sostenerlo c’è un’intera famiglia, se non la comunità di appartenenza. Devono dar conto a tutta questa gente che ha riposto di fiducia in loro.
C’è gente che decide di tornare indietro?
Sì, anche. Ne abbiamo incontrati. Quando abbiamo chiesto loro cosa avessero fatto una volta a casa, hanno risposto che non stavano tornando a casa. Tornavano nel loro paese, ma per vivere nascosti in un’altra città nella speranza di raccogliere qualche soldo e poi tornare a casa con quelli. A questo proposito adesso l’OIM sta tentando di progettare dei programmi di rientro. Si è pensato d’insegnare un mestiere nei ghetti di Agadez e di Niamey, e poi rimpatriare i ragazzi aiutandoli con un progetto di reinserimento nel loro contesto originario.
Ha parlato più volte di “ghetti di Agadez” o “ghetti di Niamey”, cosa sono?
Tieni conto che Niamey, ma soprattutto Agadez, sono le città in cui giungono tutti i migranti dell’Africa Occidentale. Lì aspettano il momento di partire per attraversare il deserto e giungere in Libia. I ghetti sono le zone ai bordi delle città dove i migranti vivono durante questa attesa: bisogna aspettare di avere i soldi o semplicemente il proprio turno. Sono zone che continuano a espandersi. Per capire le dimensioni del fenomeno: ogni lunedì parte una carovana di jeep con circa 2500 persone a bordo. Agadez è un posto pazzesco, meraviglioso. È una città alle porte del deserto, patrimonio dell’Unesco. Il centro è fatto di bellissime costruzioni in terra, c’è una moschea del XVI secolo, ci sono i Tuareg che girano per le strade. Infatti fino a 10 anni fa viveva di turismo. Poi c’è stato un po’ di banditismo, hanno rapito dei francesi e i turisti se ne sono andati. Oggi gli stessi che allora portavano in giro i turisti, portano i migranti in Libia.
Secondo lei i migranti partono più per disperazione o per speranza? Quale dei due sentimenti è la vera molla che li spinge?
Assolutamente la speranza. Non c’è nessuna disperazione, mi sembra, nei luoghi in cui questa gente nasce e cresce. Anche nei luoghi più estremi che ho visto, non ho mai riscontrato disperazione per come la intendiamo noi. La speranza l’ho vista e, ti dirò, non sempre è una cosa positiva perché spesso porta al fatalismo. Sono prodotti della speranza tutti i discorsi su Dio che queste persone puntualmente fanno: “sarà lui che ci farà arrivare salvi a destinazione”, “le nostre vite sono nelle sue mani”, “il mio destino è già stato scritto a lui”. Rimettono tantissima speranza in Dio. Questo atteggiamento però, portato alle estreme conseguenze, li deresponsabilizza e così spesso le loro scelte finiscono per essere davvero azzardate. “Wallah”, il titolo del documentario, in arabo vuol dire “lo giuro su Dio”, ed è una parola che tutti ripetono quasi alla fine di ogni frase.