La Palestina di Kapuściński

“Tutte le popolazioni espresse dalla Palestina hanno sempre avuto problemi a crearsi uno stato proprio. […] Tutti i profeti dell’Antico Testamento maledicono la Palestina, terra di gente disgraziata. Basta leggere la Bibbia, il Libro dei Libri. La Palestina vi è maledetta dalla prima all’ultima pagina. […] Qui non si permette a nessuno di vivere fra le stelle. Qui ti trascinano sulla terra perché tu veda il sangue seccarsi e senta esplodere le bombe”.

Sono le considerazioni finali di Kapuściński, dopo una lunga chiacchierata con un palestinese suo conoscente, mentre si bagnano nel Giordano. Sono i primi anni ’70.

di Andrea Colasuonno

Ricorre in questi giorni il decimo anniversario dalla morte di Ryszard Kapuściński. Nato nel 1932 nell’attuale Bielorussia, allora Polonia, Kapuściński s’impose come una delle maggiori figure nel giornalismo del ‘900. Si deve a lui la codifica di un genere di cui tutt’oggi rimane il più autorevole esponente: il reportage narrativo.
Per molti anni fu corrispondente per un’agenzia di stampa, cosa che lo portò a scrivere dai più diversi contesti di guerra. Si dice che si fosse per questo abituato ad aver a che fare con notizie tanto brevi quanto precise. Tuttavia si accorse che nei suoi taccuini, così facendo, rimaneva tanto materiale. Troppo. Dunque decise di iniziare a scrivere dei libri.
Alla base resta il fatto – non trascurabile – che prima che un giornalista, fosse un ottimo scrittore.

Tuttavia per scrivere aveva bisogno di viaggiare, e per viaggiare doveva scrivere.

Racconta Francesco Cataluccio, saggista che a lungo si è occupato delle versioni italiane delle opere di Kapuściński, che quando provava a chiamarlo a casa la moglie non sapeva mai dove fosse, aggiungeva che forse lo avrebbe risentito in un paio di settimane. Fu indubbiamente un personaggio inquieto Kapuściński, oltre che dall’enorme capacità empatica: “il cinico non è adatto a questo mestiere” è il titolo di un lirbo-intervista a lui dedicato.
Di solito è ricordato per un testo in particolare, Shah-in-shah, scritto in Iran ai tempi della rivoluzione khomeinista. Tuttavia, nonostante sia questo forse il suo lavoro più riuscito, ha lasciato bellissime pagine su qualunque posto in cui abbia lavorato. “Il tema della mia vita sono i poveri” scrisse una volta. Così si occupò di quelli dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina, dell’ex Unione Sovietica. E della Palestina. Qui il suo interesse per i poveri si unì a quello per uomini che dedicavano la loro vita a una lotta di liberazione. Raccolse le storie da quella terra ormai in guerra da qualche decennio, come quelle da altre parti del mondo, e le pubblicò in un libro uscito in Italia con il titolo “Cristo con il fucile in spalla”.

Aveva un imperativo Kapuściński: mai influenzare il giudizio del lettore con le proprie opinioni. Lo ripeteva sempre agli studenti che andavano alle sue lezioni di giornalismo tenute nella fase matura della sua carriera. “Il giornalismo non è un mezzo di propaganda politica, ma informazione e ricerca della verità”.

E tuttavia, leggendo le pagine dedicate alla Palestina, non si può non far caso a un malcelato trasporto per ciò di cui parla.
“Questa è oggi la Palestina, per metà abitata dagli israeliani e per l’altra metà occupata da loro. Nell’odierna Israele arabi ed ebrei sono condannati gli uni agli altri. […] Il problema sta tutto qui. Nel fatto che la Palestina è così piccola. Un sasso tirato da una delle sue frontiere ricade sulla frontiera opposta. Nello spazio di quella traiettoria sta tutta la Palestina”.

Piccola e traboccante di ogni cosa la “Terra Santa”. “Tutte le civiltà d’Europa e del Medio Oriente hanno piantato un albero sulla terra palestinese e il palestinese si è nutrito dei suoi frutti. I palestinesi appartengo all’èlite intellettuale del mondo arabo. […] Risparmieranno ogni centesimo per investirlo nell’istruzione dei figli. Sono ambiziosi. Spogliati della patria, lottano per l’avanzamento individuale negli stati in cui gli è toccato di vivere. Israele avrebbe vita molto più facile se il suo diretto avversario non fossero i palestinesi. Un osso duro. Condividono la caratteristica di tutti i semiti: la passione per le discussioni. Il palestinese ha bisogno di esprimersi, di prendere a tutti i costi una posizione, altrimenti sta male. Una caratteristica che è anche la causa di tutte le divisioni in seno al movimento palestinese”.

Durante la sua permanenza in quella parte di Medio Oriente, Kapuściński, oltre ai Territori occupati, visitò Libano, Siria e Giordania. In ciascuno di questi posti non mancò mai di fermarsi nei campi profughi. “I campi palestinesi sono la cosa più triste che si possa vedere in Medio Oriente. Se all’improvviso vedete qualcosa di sconvolgente […] al cui interno brulicano torme di bambini seminudi, mosche rabbiose e cani famelici, mentre gli uomini siedono a terra in attesa di non si sa che, di una cosa qualunque – ebbene, vuol dire che vi trovate davanti a un campo profughi palestinese”. Parlandoci poi con quegli uomini, lo scrittore, capisce come fossero in attesa di una sola cosa: il ritorno.
“Per i palestinesi la terra è tutto. […] Ahmed ci tiene a farmi capire che la sua situazione di profugo e di vagabondo è provvisoria. […] Nei campi profughi la gente mantiene i tradizionali legami comunitari. A ogni villaggio è dedicata una strada. In via Bet Shemesh vivono gli oriundi di Bet Shemesh, in via Kafr Kanna quelli di Kafr Kanna. Talvolta gli abitanti di villaggi attigui vivono gli uni accanto agli altri, continuando per anni a discutere dei confini fra i loro terreni, anche se quei confini non esistono più”.

Ed è nei campi profughi che si annida anche la resistenza più tenace, i cristi con il fucile in spalla, quelli che Kapuściński era lì per cercare ed ascoltare.

Così fece, e poi raccontò “le forze armate israeliane, a seguito di un’azione palestinese, di solito arrivano e uccidono un numero di persone sufficiente a servire da monito, ma non troppo elevato per evitare che si sollevino voci di condanna. […] Qualche tempo più tardi, nella metropolitana di Parigi, in un autobus di Londra o in un caffè di Vienna la gente apprende dai giornali che da qualche parte alcuni fedayn hanno ucciso alcuni israeliani, dopodiché si sono fatti saltare per aria. Il giorno dopo legge che l’aviazione israeliana ha bombardato a sua volta, uccidendo alcuni palestinesi. Ma poiché tutto questo accade in luoghi così lontani e i nomi sono così difficili da ricordare, la gente se ne dimentica, tanto più che camminando per strada e guardando le vetrine, è portata a pensare cose completamente diverse, magari anche a mormorare tra sé: ‘la roba è rincarata un’altra volta’”.