Diario dalla Women’s March

Do you want a slightly better perspective? Climb on things.

Testo e foto di Selene Candido

Ho letto decine di articoli online negli ultimi giorni. E mi sono ricordata della domanda che mi avviliva quando sedevo a lezione di filosofia all’università: non è già stato detto tutto? Che cosa potrei dire io di nuovo o di originale, sulla Women’s March, la marcia delle donne a Washington?

Poi ho pensato che, in effetti, non volevo sforzarmi di dire qualcosa di originale. Volevo solo dire qualcosa di mio. In fondo, non è questo che rende significativa una protesta? Ognuno ha la sua cosa da dire, le sue ragioni, il suo fuoco. Fuochi che stavolta hanno fatto convergere, smosso, riempito una città – più città in contemporanea – negli Stati Uniti e altrove.

 

 

C’era la mia amica, che tiene il suo fuoco domato la maggior parte del tempo, ma che a Washington ha portato sua figlia. C’erano le mie giovani alunne, con le loro sorelle maggiori: per i loro fuochi, ancora piccoli, questo è stato un momento decisivo. E c’erano donne (e uomini) che ancora non conoscevo. Visti dall’alto, eravamo un fiume lento tinto di rosa. Visti da dentro, un agglomerato esplosivo di parole, gesti, colori, fuochi. Migliaia di persone che protestavano perché si sentono non riconosciuti, protetti e garantiti nei loro diritti fondamentali.

Perché sul potere più influente al mondo riconoscono le ombre e il pericolo di un passato che va superato, non resuscitato.

Protestavano pacificamente contro un presidente e un governo che non hanno scelto, che non li rappresenta, che ha in agenda il progetto di ferire, dividere e far inaridire il Paese, anziché di farlo crescere e progredire.

Cartelli e cori. Alcuni più goliardici, altri più appassionati, altri ancora disarmanti nella loro palese nuda verità. Nello slogan “Women Rights are Human Rights” tutti i fuochi sono diventati uno: la lotta contro il razzismo e la xenofobia, per i diritti delle donne e della comunità LGBT, per la tutela del pianeta (“There is no Planet B”).

 

 

C’erano due signori sulla settantina. Lui teneva un cartello sul quale si leggeva: “Nicht mein Führer“. Ha posato per me, ha sentito il mio accento straniero, mi ha detto: «Make sure this goes viral». «I will», ho risposto. Lei invece, con un pennarello indelebile sul retro di un cartone della pizza, aveva scritto: “I can’t believe I’m still protesting this s**t“.

Io non avevo un cartello, né un berretto rosa. Solo il mio rossetto in tasca (che non ho avuto tempo di mettere), la macchina fotografica al collo e, in borsa, una pagina strappata dal catalogo della Biennale d’arte di Venezia di qualche anno fa. È una foto dell’artista Waheeda Malullah che s’intitola “My Face” e rappresenta una donna avvolta nel buio e in un niqab morbido con un motivo floreale. È di una bellezza che si avverte vicina e concreta, e colpisce.

Con quest’idea ero partita: cercare la bellezza di queste donne e questi uomini che marciavano e s’incontravano, e cercarla nei dettagli, come ha fatto Malullah nel suo ritratto.

In fondo, guardare ai dettagli è quello che so fare meglio. Perciò ho portato con me solo il 50 mm, il mio obiettivo preferito, quello che ti costringe ad avvicinarti alle cose, ad aprire un dialogo con il soggetto della tua fotografia.

 

 

Nell’autobus che da NYC ci portava a Washington DC avevamo seguito, a cellulari unificati, la prima parte del comizio. Avevamo sentito Gloria Steinem dire: «Sometimes we have to put our bodies where our beliefs are. Pressing “send” is not enough». Con me c’era la ragazza afro-americana che sarei riuscita a fotografare soltanto più tardi, quando me la sarei ritrovata miracolosamente di fronte sulle scale mobili. C’era la donna col giubbotto giallo e i capelli color paglia, ancora arrabbiata perché il suo autobus non era partito alle tre del mattino come previsto, e si sarebbe persa l’intervento di Michael Moore.
Il caffè che reggeva tra le mani sembrava non finire mai. C’era la mia vicina, timida e schiva. Veniva senz’altro da una notte fuori, sapeva di alcol e stanchezza. Avvolto nello zainetto, aveva un cartello fucsia che lasciava intuire lo slogan “My Body, My Choice”.

Arrivata a Union Station desideravo rintracciare le mie amiche, marciare con loro. Ma non appena ho intuito che non sarebbe stato possibile (il cellulare era fuori uso e i miei movimenti, da quel momento e per le sei ore successive, sono stati guidati dalla folla), sono stata pervasa da un senso forte di felicità e leggerezza.

Quel giorno ho fatto esattamente ciò che mi ero ripromessa di fare: ho fotografato le nuche, le mani, gli orecchini, le scarpe di chi si era arrampicato sui semafori e le impalcature, le spille attaccate ai giubbotti di jeans, gli occhi di chi si è lasciato guardare.

Il ragazzo che mi reggeva la macchina fotografica mentre mi arrampicavo su un muretto, mi ha detto: «Do you want a slightly better perspective? Climb on things». E penso che, alla fine, questo è ciò che abbiamo fatto tutti, il 21 gennaio: volevamo vedere meglio, più da vicino, e abbiamo fatto lo sforzo di arrampicarci.

 

 

Cosa accadrà ora?

Me lo sono chiesto mentre scrutavo la città alle sette del mattino dopo, dalla mia camera d’albergo al decimo piano. Washington era di nuovo ordinata, semi-deserta, umida e appesantita dal silenzio e dalla nebbia. Ho preso la macchina fotografica e sono uscita al volo, volevo andare a vedere quel che rimaneva dei cartelli che, al grido di “Welcome to your first day, we will not go away!”, erano stati depositati a centinaia dinanzi alla Casa Bianca, alla fine della marcia.

 

 

L’operatore che con una ruspa raccoglieva mucchi di slogan e li rovesciava stancamente dentro un cassonetto enorme, mi ha detto con una punta di rimprovero di aver iniziato a ripulire alle tre del mattino e di non aver ancora finito.

Tra i cartelli ancora a terra, ammorbiditi dalla pioggia della notte, ce n’era uno rosso. Più grande degli altri. Recitava: “Yes, we still can”.

L’operatore mi ha guardato con disappunto, ma mi ha lasciato fare. Ho raccolto il cartello e ho trovato un modo per legarlo alla transenna. La Casa Bianca era sfocata, sullo sfondo. È stato il mio ultimo scatto del fine settimana. Ho deciso di lasciarlo appeso, quel cartello, finché avesse resistito. Mi sono allontanata, per poi voltarmi richiamata da un vociare intenso. Ho visto un gruppetto di ragazzi attorno al cartello, cellulare in mano, in attesa di scattare la loro versione della mia foto. Mi sono ripetuta che forse sì, è davvero così che comincia il cambiamento.

Do you want a slightly better perspective? Climb on things.

 

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