La revoca del TPP o la rinegoziazione del NAFTA non restituiranno giustizia ai lavoratori statunitensi, né cureranno le ferite del tessuto sociale di un Paese che soffre di una decennale crisi strutturale
di Clara Capelli
“Il protezionismo porterà a maggiore forza e prosperità”. Queste le parole di Donald Trump nel corso del suo discorso di insediamento il 20 gennaio, promettendo di riportare “il lavoro negli Stati Uniti”, uno dei punti cruciali della campagna elettorale conclusasi, contro ogni iniziale aspettativa, con la sua elezione alla 45ma presidenza americana.
Trump non ha perso tempo e il 23 gennaio ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dal Trans-Pacific Partnership (TPP), l’accordo economico con undici Paesi della regione del Pacifico, corrispondente a circa il 40 percento dell’economia mondiale. La decisione era attesa da tempo e il TPP da mesi era oggetto di critiche e mal di pancia (molto più del TTIP con l’Unione Europea).
Barack Obama, che pure l’aveva sostenuto come “pivot” della sua strategia volta a contenere la potenza cinese in Asia, aveva rinunciato a insistere per la sua approvazione al Congresso. I repubblicani – che detengono la maggioranza al Congresso e che avevano promosso l’accordo di libero scambio a partire dal secondo mandato George Bush Jr. – avevano fatto un passo indietro di fronte al crescente sostegno che Trump raccoglieva intorno a sé criticando apertamente il TPP.
“Fermiamo questa catastrofe, distruggerà milioni di posti di lavoro”, ha ripetuto incessantemente per tutto il 2016, riuscendo a cambiare le carte in tavola e bloccare ben prima della revoca ufficiale il controverso trattato.
Anche la candidata Hillary Clinton, conosciuta per le sue posizioni marcatamente liberiste, ha dovuto fare marcia indietro durante la campagna, incalzata sia da Trump sia dal rivale alle primarie democratiche Bernie Sanders.
Donald Trump ha saputo in particolare fare leva sulle frustrazioni della classe media americana delle zone maggiormente depresse dalla deindustrializzazione seguita alle massicce delocalizzazioni avvenute all’interno del NAFTA, il trattato economico tra Stati Uniti, Canada e Messico. Il NAFTA, che ora Trump intende rinegoziare, è stato spesso associato nell’immaginario collettivo alla perdita di posti di lavoro e all’impoverimento diffuso, specialmente in quegli stati della Rust Belt, che non a caso alle elezioni hanno votato in larga maggioranza per Trump.
Dirottare la rabbia sociale contro la “versione asiatica” del NAFTA è stato facile per il candidato repubblicano, il quale è stato anche molto abile a fare dei trattati di libero scambio il “nemico unico”, responsabile non solo delle delocalizzazioni, ma anche della contrazione salariale che ha interessato ampie fasce della società statunitense, con un acuirsi profondo della disuguaglianza e il proliferare di impieghi nei servizi a basso valore aggiunto, con salari bassissimi e tutele lavorative minime.
Oltre vent’anni dopo l’approvazione del NAFTA e l’affermarsi dei movimenti no global sulla scena internazionale, si riconosce finalmente che nella partita del libero commercio e della globalizzazione ci sono dei vincitori, ma anche molti vinti.
Questo avviene dopo una serie di risultati elettorali che, dalla Brexit all’elezione di Trump, non hanno alcunché di progressista. Si parla di soddisfare le numerose istanze di giustizia sociale e ritrovare il centro di gravità dell’uguaglianza in tanti Paesi del mondo, ma quasi nessuna soluzione concreta viene proposta a riguardo.
A cominciare da Trump, che se da una parte ha annunciato di voler combattere per gli sconfitti della globalizzazione, dall’altra ha promesso riduzioni fiscali per i redditi più elevati e le multinazionali: sgravi stimati intorno ai 6,2 trilioni di dollari, la cifra più elevata dall’epoca della presidenza di Ronald Reagan. Una cifra che verrà finanziata, dicono dall’esecutivo, almeno in parte con significativi tagli al budget federale, anche se i dettagli della copertura della manovra rimangono a tutt’oggi ignoti. Durante la campagna elettorale Trump ha dichiarato apertamente di voler smantellare il Dodd-Frank Act sulla regolamentazione della finanza, mentre ben poco si è speso sulla questione del salario minimo, lasciando la questione alla discrezionalità dei singoli stati.
Il presidente ha dichiarato di voler imporre una “border tax” del 35 percento sulle società che intendono delocalizzare in Messico, ma le questioni di politica industriale per ricomporre il tessuto produttivo americano in modo da rendere possibile il “Buy American. Hire American” rimangono in buona sostanza ignorate.
La revoca del TPP o la rinegoziazione del NAFTA, ormai comunque necessaria dopo 23 anni, non restituiranno giustizia ai lavoratori statunitensi, non cureranno le ferite del tessuto sociale di un Paese dove come nel resto del mondo si soffre di una decennale crisi strutturale. E che sia tramite il libero mercato o per mezzo del protezionismo commerciale, il potere economico continuerà a prosperare in modo disuguale.