Il documentario sul campo di concentramento di Sachsenhausen
AUSTERLITZ, di Sergei Loznitsa, nelle sale dal 25 gennaio
Campo di concentramento di Sachsenhausen, 35 chilometri a nord da Berlino. Piena estate. Il regista posiziona la macchina da presa lungo il percorso che facevano i prigionieri, passando dal cancello in cui entravano, davanti ai dormitori, le baracche, le docce, i forni crematori, i pali delle impiccagioni, e chiude circolarmente tornando al cancello da cui pochissimi uscirono vivi.
Solo che nella calda giornata in cui Austerlitz è girato, il lager è invaso dalla mattina alla sera da sciami di turisti in pantaloni corti, ciabatte, magliette con scritte cubitali, ognuno armato di smartphone o macchina fotografica, senza alcuna possibilità di scampo.
Per tutta l’ora e mezza del documentario, gli attori involontari sono loro, le coppie, le famiglie, i gruppi di turisti che si aggirano in questi luoghi dell’orrore come se fossero in un orto botanico o in luogo archeologico di massa
.
Con la stessa noncuranza girano distrattamente la testa di qua e di là, mangiano panini, noccioline, merendine, bevono bibite, ridono, fanno selfie ovunque, persino davanti ai forni o con le mani alzate, a mimare la contenzione, nei luoghi dove gli internati venivano impiccati.
All’entrata, si mettono in fila per trovare l’autoscatto migliore sotto la celebre scritta Arbeit macht frei. Un gruppo di ragazzi fa addirittura un picnic vicino ai forni crematori. Nessuno prega, nessuno si ferma un minuto in più, da solo, in un qualsiasi punto dell’ ex campo. Davanti ai nostri occhi passano tantissime facce. ma su nessuna si vede mai una traccia di commozione, di pietas, di dubbio morale.
E in tutto il film quello che sentiamo sono solo i rumori di centinaia di piedi sul selciato, i cinguettii degli uccelli, le voci delle guide che spiegano in diverse lingue, meccanicamente, e a volte pregano di aspettare ancora pochi minuti per mangiare, poi ci sarà tempo. Non c’è una voce che commenti né una colonna sonora.
L’impressione è scioccante. Ci si sente sempre più a disagio man mano che le immagini e i minuti scorrono. Perché la sensazione è quella di uno stupro di massa di un memoriale, dell’enorme “digestione” di un orrore che non viene percepito e neppure osservato, solo fotografato e visitato nel minor tempo possibile come una meta turistica qualsiasi, durante una domenica d’estate.
Loznitsa non giudica i turisti, non li guarda dall’alto in basso. Si limita a ritrarli, senza filtro, e dà l’impressione di condizionare gli eventi il meno possibile. Il montaggio lascia fluire quello che accade davanti alla camera fissa, abilmente nascosta. Siamo noi che sprofondiamo nello sconforto davanti a tanta indifferenza di massa.
Il regista ha chiamato il suo documentario Austerlitz in omaggio a un romanzo di W.G. Sebald, in cui un architetto si mette sulle tracce della sua famiglia falciata dalla Shoah. E ha raccontato di aver avuto l’idea di realizzarlo tre anni anni fa.
Stava visitando il memoriale di Buchenwald e si sentiva a disagio, aveva la sensazione di non sapere come comportarsi. “La visita guidata ti dava un sacco di informazioni sull’organizzazione del campo e sui forni crematori, ma molto poco in termini di riflessioni sulla tragedia, di redenzione e catarsi: quello che pensavo dovesse essere l’essenza di quella giornata. Che ci facevo io là? Avevo il diritto di stare in un campo come visitatore? È questo il modo per commemorare e piangere migliaia di vittime innocenti? Ho girato Austerlitz nel tentativo di trovare una risposta”.
Ma il turismo mordi e fuggi sembra essere quella peggiore, mister Loznitsa. E Austerlitz è un colpo alla coscienza collettiva, un campanello d’allarme. Una visione non facile, ma necessaria, come si diceva tempo fa.