E’ morto Predrag Matvejevic
Ieri, 2 febbraio 2017, è morto Predrag Matvejevic, scrittore nato a Mostar nel 1932. Professore all’Università di Zagabria e poi alla Sorbona a Parigi, ha insegnato all’Università La Sapienza di Roma. Le sue opere hanno segnato profondamente generazioni di lettori, da Breviario Mediterraneo a Un’Europa maledetta, passando per i suoi scritti su Venezia. Ha ridefinito una grammatica mediterranea, come spazio culturale, contro i nazionalismi, i fanatismi, i muri. È stato condannato da un tribunale di Zagabria a cinque mesi di prigione nel novembre 2005 per calunnia e ingiuria nei confronti dello scrittore Mile Pešorda. Riproponiamo qui l’articolo che, in risposta a quella condanna – contro la quale si mobilitò la comunità culturale mondiale – scrisse sul manifesto all’epoca.
Alcuni naviganti prima o poi tornano, gli altri partono per sempre. Si distinguono le navigazioni dopo le quali guardiamo le cose in modo differente, in particolare quelle dopo le quali vediamo diversamente anche il nostro passato, e persino il mare. Tali percorsi stanno all’inizio e alla fine di ogni racconto sul Mediterraneo. Il mare e la sponda, le isole nel mare e i porti sulla sponda, le immagini che ci offrono gli uni e gli altri cambiano nel corso dei peripli e durante gli approdi. Il Mediterraneo rimane lo stesso, noi invece no.
da Breviario Mediterraneo, di Predrag Matvejevic
Andrò in prigione, di Predrag Matvejevic
Confondere la civiltà europea con la civiltà universale, è una tentazione ben nota. Dare ad una realtà concreta e contingente un significato quasi assoluto è un errore comune. Sarebbe più utile discutere delle aspettative e delle attese di una parte dell’Europa nei confronti dell’altra.
Nei due paese candidati (la Croazia ha aderito nel 2013 ndr) dell’Unione Europea – La Turchia e la Croazia – succedono nello stesso momento due casi simili : nel primo, lo scrittore Orhan Pamuk (candidato serio per il Premio Nobel) è minacciato di esser arrestato per aver riconosciuto il genocidio della sua nazione sugli armeni; nell’altro, il sottoscritto viene condannato a cinque mesi di carcere per aver scritto sulla responsabilità degli intellettuali nazionalisti che hanno aiutato i «signori della guerra» ad infiammare i conflitti.
Si, è vero che ho scritto è pubblicato, in croato e in italiano, un saggio intitolato I nostri talebani ( il titolo nel Piccolo triestino era più esplicito: Talebani cristiani).
Si trattava di quelli che hanno contribuito ad una propaganda micidiale, colpevoli per più di 200mila morti in ex Jugoslavia, di più di due milioni di esiliati, non so quanti altri sottoposti alla “pulizia etnica”. Proponevo una specie di “tribunale d’onore” che completi quello dell’Aia, dinnanzi al quale potrebbero rispondere i propagandisti dell’ultima guerra balcanica.
Menzionai in quest’occasione anche i nomi: alcuni serbi, come Dobrica Cosic, l’inspiratore del famoso “Memorandum” dell’Accademia serba, con alcuni suoi vicini (Matija Beckovic, Momo Kapor); aggiunsi diversi scrittori croati, fra i quali, all’ultimo posto – vista la sua modesta importanza letteraria – Mile Pesorda, poeta di Bosnia-Erzegovina che si era trasferito durante la guerra in Croazia.
Quest’ultimo mi fece un processo prolungatosi durante un pò meno di quattro anni e che finì, alcuni giorni fà, con la sentenza giudiziaria che mi accusa “d’ingiuria e diffamazione” e mi condanna a cinque mesi di carcere. Nel motivare la sentenza il giudice ha definito offensivo il termine “talebano”, che io invece consideravo abbastanza debole nel contesto.
Ho già dichiarato (tramite il giornale Novi list di Fiume) che non intendo fare ricorso: perché questo significherebbe prendere sul serio la condanna e il tribunale dal quale proviene.
Sono dunque pronto ad andare, nel momento deciso da “loro”, subito dopo aver fatto la mia valigia, nella prigione che mi sarà assegnata. Ho una doppia cittadinanza, croata e italiana (per quest’ultima ringrazio di nuovo Claudio Magris e Raffaele La Capria che hanno chiesto al Presidente della repubblica Scalfaro di concedermela) – potrei dunque rimanere qui senza le difficoltà che incontrano gli “estracomunitari”.
Ma preferisco sfidare in questo modo quelli che lo meritano.
Molti amici e compagni mi sostengono in questa decisione. Soprattutto quelli che sanno come cercavo anch’io di difendere gli intellettuali perseguitati, anche quelli che “pensavano diversamente” da me: Solzenitsyn, Sacharov, Brodskij, Kis, Havel, Kundera, Milosc, Solidarnosc, Dubcek e “la Primavera di Praga”, e anche “l’apertura italiana”, come lo chiamavamo all’Est, quando Berlinguer e i suoi compagni fecero la loro svolta antistaliniana.
Aggiungo alla fine alcuni accenni sulle idolatrie e sulle illusioni che si fanno di fronte all’Europa tanti cittadini dell’ex Europa dell’Est.
Ogni tentativo simile esordisce o si conclude con una domanda ad un tempo banale ed imprescindibile: “Quale Europa?”.
L’abbiamo sentita, tante volte, in diversi contesti, a partire dall’Europa del carbone e dell’acciaio fino a quella di Maastricht e dell’euro. Sarebbe auspicabile che l’Europa odierna fosse meno eurocentrica di quella del passato, più aperta al cosiddetto Terzo Mondo dell’Europa colonialista, meno egoista dell’«Europa delle nazioni», più Europa dei cittadini che si danno la mano e meno quella degli Stati che si sono fatti tante guerre fra loro.
Un’Europa più consapevole di se stessa e meno soggetta all’americanizzazione. Sarebbe utopistico aspettarsi che diventasse, in un futuro prevedibile, più culturale che commerciale, più cosmopolita che comunitaria, più comprensiva che arrogante, più accogliente che orgogliosa e, in fin dei conti, perché no, più socialista dal volto umano (è il termine di Sacharov) e meno capitalista senza volto.
Marco Florio legge brani del Breviario Mediterraneo di Predrag Matvejevic
E’ legittimo chiedere quale diventerà l’«altra Europa», che si trova di fronte a queste alternative. In una parte dei cosiddetti «paesi dell’Est», il post-comunismo non è ancora riuscito a «raggiungere» i regimi precedenti (come livello di vita e di produzione, scambi economici, sicurezza sociale, scolarità, regime pensionistico, eccetera).
Per citare solo un esempio: la Slovenia, che ha fatto il migliore risultato dei dieci nuovi membri dell’Unione, ha impiegato quasi otto anni per raggiungere la stessa Slovenia – la sua produttività dell’inizio degli anni Novanta.
Questa considerazione non ha lo scopo di riabilitare le pratiche ben conosciute di un socialismo che si è autoproclamato «reale» senza esserlo. Le transizioni di questi paesi durano molo più a lungo del previsto. Riescono soltanto eccezionalmente a diventare vere trasformazioni. (Occorre distinguere meglio queste due nozioni: la transizione è basata su ipotesi, la trasformazione è un risultato).
Il cattivo odore delle vecchie tradizioni nazionaliste ristagna ancora in molte zone del nostro continente e fuori di esso. Si tratta di una realtà che sembra già compiuta pur senza concludersi o raggiungere una forma accettabile.
E’ una situazione difficile da sopportare e dalla quale non ci si riesce ad affrancare. Molti becchini si danno invano da fare, senza riuscire a sbarazzarsi delle spoglie. È un ruolo tutt’altro che gradevole.
I nazionalisti di ogni matrice si scagliano accuse reciproche in modo parziale, esagerato, caricaturale – per condannare gli altri o giustificare se stessi. Le coscienze che tentano di ergersi “al di sopra della mischia” generalmente sono considerate “traditrici della nazione”. E per questo vengono punite.
Talvolta abbiamo voglia di finire piuttosto in carcere, come sta succedendomi, che di sopportare tutto questo…