Cosa succede se un gruppo di di trentenni poliglotti e creativi, bohémien del XXI secolo, una ventina di operatori artistici che da anni intervengono a Bruxelles e in altre città europee con il loro ‘Medex – Musée éphémère de l’exil’, che succederà se sceglieranno come loro laboratorio per un mese Agrigento?
Di Tano Siracusa
Loro vengono da Bruxelles, da Parigi, dove alcuni di loro vivono in case occupate. Agrigento è una città del profondo sud italiano, urbanisticamente disgregata, deturpata dall’abusivismo, città greca senza più una piazza, senza agorà, con un centro storico ormai in malora dove risiedono più o meno stabilmente qualche migliaio di non-comunitari, una città siciliana, una delle tante, dove ‘a megghiu giovintù’ è andata via.
Dice un prof. di liceo che ha ascoltato quelli del Medex presentare il loro progetto alla dirigente scolastica: ‘Verranno a montare la loro mostra a scuola, incontreranno gli studenti e spiegheranno questa loro idea del museo effimero. La preside era entusiasta.’ A lui sembra invece un film già visto, negli anni ’70 lascia intendere.
Ma il prof. è sicuramente uno di quelli che ha letto Guy Debord e nel ’68 aveva venti anni.
In realtà più che un’idea quella del museo effimero sembra una loro pratica. A Bruxelles operano da alcuni anni e poco prima di venire ad Agrigento hanno ricevuto un premio in danaro che è servito in parte a finanziare la loro venuta in Sicilia.
Costruiscono contesti, cornici, ’situazioni’ dentro cui far incontrare lingue e linguaggi, esperienze, racconti che abbiano come tema l’esilio, l’esclusione nelle sue diverse declinazioni, e come orizzonte un altrove comunitario da reinventare, partendo anche dalle parole, dal loro uso.
‘Noi siamo lo zenzero, i migranti sono la liquirizia e voi, gli agrigentini, siete la cicoria.’ dice Daniele, il motore volatile, quasi ubiquo del gruppo. ‘Perché noi la cicoria?’ lo interrompe Marilina. ‘Perché abbiamo fatto delle ricerche su internet e risulta che la cicoria si mescola meglio con gli altri due ingredienti’, risponde subito Daniele passando ad altro.
Daniele, trentuno anni, è l’unico che ogni tanto lascia cadere qualche distratto riferimento a Debord e al situazionismo.
Inutile provare a capire cosa esattamente intendano fare. Meglio osservare come si muovono, lasciar perdere le interviste e rinunciare a un punto di osservazione esterno. Meglio starci dentro con una videocamera.
Li abbiamo seguiti per una settimana, la prima.
I primi contatti, le riunioni, gli incontri In case private, nei bar dove improvvisano degli aggiornamenti organizzativi, in un centro accoglienza di minori richiedenti asilo, al Funduk, un magnifico, secolare locale scavato nel tufo del centro storico.
Il Comune ha messo a disposizione altri spazi al chiuso e anche spazi esterni, strade, piazze per le loro installazioni e performances.
Sabato sera al Funduk si raccolgono storie.
C’è da vedere, da ascoltare, ma per Daniele e gli altri è importante che si oltrepassino le cornici, entrare, raccontare. E anche la loro è una storia da raccontare.