Frammenti di Kurdistan
di Linda Dorigo
No Ruz 1395, Sanandaj.
A casa di Hamad c’è un caos totale. Sua moglie è in preda alle pulizie di primavera e sembra impossibile cucinare alcunché.
Ma Naghme riesce comunque a spadellare della carne macinata e contemporaneamente elenca quelle che reputa le grandi differenze tra i curdi iraniani e quelli dell’Iraq. “Noi mangiamo, beviamo, vestiamo in un altro modo.. siamo diversi insomma”. Naghme non è mai stata in Iraq.
Lo ha visto in tv e le immagini devono averla convinta della povertà dei curdi oltre confine. In questa casa le persone sembrano essere state assimilate dalla grande madre persiana.
In verità, in tutte le città del Kurdistan la “curdità” è relegata ai musei, dove le arti e i mestieri sono rappresentati da diafane statue di cera.
Il museo di Sanandaj è un corridoio spartano, dove gli utensili artigianali in vendita al piano di sopra sono messi sottovetro come reperti fossili. Qui una donna cuce piccoli bauli di stoffa vicino alla stufa, e oltre una tenda di vestiti stesi ad asciugare si scorge un giovane che assembla box di legno.
“Questo Paese è spacciato – lamenta Parviz, impiegato in banca, appena fuori dalla Khaneye Kurd, la casa dei curdi – Per trovare qualcuno che indossi i vestiti tradizionali bisogna andare nei villaggi. Lì si che trova la vera anima curda”.