La città delle Donne

Ricostruirsi una vita con calce, mattoni e cemento non sembra un’impresa facile, eppure ce l’hanno fatta le donne che hanno lavorato come operaie fino a realizzare con le loro stesse mani La Città delle Donne, inaugurata nel 2006

di Alice Facchini

Un insieme di 98 case, situato nella periferia della città di Turbaco, nel nord della Colombia, che ha permesso loro di ricominciare a vivere in maniera dignitosa e uscire dalla spirale di violenza che le soffocava. Tutte hanno dovuto lasciare la propria casa per colpa delle minacce e degli attacchi dei paramilitari o dei guerriglieri, tutte si sono trovate sole in una luogo lontano, senza lavoro e senza un posto dove stare. E tutte hanno deciso di reagire, mettendosi insieme e dando vita alla Liga de las Mujeres Desplazadas (LMD).

Questa organizzazione è costituita esclusivamente da donne desplazadas: la traduzione in italiano potrebbe essere “sfollate di guerra”, ma in realtà non esiste un termine che traduca adeguatamente il concetto.

Il fenomeno del desplazamiento forzado è una delle tante disastrose conseguenze del conflitto armato colombiano: quando i paramilitari, i guerriglieri delle FARC o dell’ELN, le bande criminali o i narcotrafficanti prendevano possesso di un territorio, obbligavano gli abitanti ad andarsene con minacce, omicidi, sparizioni. Le cifre ufficiali dicono che oggi in Colombia ci sono più di 6 milioni di desplazados, anche se si stima che il numero reale sia molto più alto, a causa dei molti casi non denunciati.

Avevo sentito alcuni racconti sulla Città delle Donne ma mi sembrava impossibile che esistesse un luogo del genere, interamente costruito e gestito da donne, dove la resistenza alla guerra si concretizza in azione quotidiana. E invece eccolo là, un insieme di edifici bassi che si profilano all’orizzonte mentre mi avvicino a bordo di un bus sgangherato.

La città si trova nella periferia sud di Turbaco, a soli 20 minuti da Cartagena, gioiello della costa caraibica, il posto più turistico (e caro) di tutto il paese. Basta allontanarsi un po’ perché il contesto cambi radicalmente. Turbaco è una città arsa dal sole, dagli edifici scrostati, poverissima. Dopo averla attraversata il bus si ferma in uno spiazzo sterrato, in piena campagna. È lì che incontro Eidanis Lamadrid, membro del Comitato tecnico della LMD, che mi accompagna a visitare la Città delle Donne.

Si tratta di tre strade, quattro blocchi di edifici per un totale di 98 case, tutte costruite mattone per mattone dalle donne della LMD. Ci sono anche alcuni negozietti, un paio di ristoranti, due chiese (una cattolica e una evangelica), la scuola, il parco giochi per bambini e il centro multifunzionale. Le case sono quasi tutte a un piano, alcune hanno la facciata colorata di azzurro o di giallo, altre non hanno neanche l’intonaco. “In tutto qui vivono circa 400 persone – spiega Eidanis – . Le donne sono proprietarie delle case e abitano qui con le loro famiglie, i mariti, i figli e i nipoti.

“Quando è nata la Liga, tutto questo ci sarebbe sembrato solo un sogno impossibile da realizzare, e invece eccoci qui”.

La LMD è stata fondata nel 1998 da alcune donne desplazadas che vivevano nei sobborghi poveri di Cartagena con l’aiuto di un’avvocatessa agguerrita, Patricia Guerrero: “L’organizzazione ci ha reso coscienti dei nostri diritti e ci ha fatto capire che non eravamo sole, che anche altre donne avevano vissuto le stesse violenze – continua Eidanis –. Unite ci sentivamo più forti”.

Dopo una breve camminata per le strade polverose, vengo accolta nella casa di Yajaira Mejia Pinto, la rappresentante legale della LMD. Lei non abita più qui e ora questo spazio è adibito a ufficio e sala riunioni. “Da 16 anni faccio parte della Liga, sono stata vittima di 3 desplazamientos forzados – racconta Yajira –. L’ultimo è avvenuto proprio qui, dove siamo adesso”. Fa una pausa. “È qua che hanno ucciso il mio secondo marito. Da quel giorno non ho più potuto abitare in questa casa e così me ne sono andata, lasciando questo spazio a disposizione dell’organizzazione”.

Insieme a Yajira ci sono anche altre donne ad accogliermi, tutte abitanti della Città delle Donne. Iniziano a parlare tutte insieme quando domando com’è nato il progetto, hanno molto da raccontare e sembrano essere impazienti di farlo. “Ci siamo chieste quali fossero le necessità di una donna e una delle prime era vivere in una casa degna – racconta Lubis Cardenas Viola –. Nel 2003 ha preso avvio il progetto della costruzione della Città, finanziato dal Congresso degli Stati Uniti attraverso l’agenzia per lo Sviluppo internazionale (USAID, ndr).

Ci siamo occupate di tutto: all’inizio abbiamo ideato il progetto, scegliendo come costruire gli edifici, con quante stanze, quanto ampie… Poi abbiamo fatto una formazione per imparare concretamente a costruire: abbiamo appreso come si fanno i mattoni, come si innalza un muro, come si montano le porte. Insomma, siamo state sia architetti sia muratori. Le capacità degli uomini sono uguali a quelle delle donne e questo l’abbiamo dimostrato”.

La costruzione della Città però non è stata semplice, anzi: “Iniziarono a esserci intimidazioni, fin da quando facevamo la formazione – spiega Yajira –. Il nostro era un progetto nuovo, diverso, gestito da donne e per di più desplazadas. Davamo fastidio.

Le minacce erano continue: uomini incappucciati entravano nei cantieri, una volta hanno lanciato un cadavere di uno sconosciuto dentro una casa. Cercavano di spaventarci, di dividerci. Alcune se ne sono andate per la paura, ma altre hanno resistito. Addirittura sono arrivati ad uccidere il marito di una compagna che ci stava aiutando nei lavori, il suo cadavere è stato ritrovato da sua figlia. A quel punto abbiamo pensato: è tutto finito. E invece lei ha insistito affinché la costruzione continuasse. Ci ha detto: ‘Non possiamo mollare, anche lui voleva che questo sogno diventasse realtà’”.

Una volta terminate, le case sono state assegnate alle beneficiarie per estrazione: “Nel momento in cui ci hanno consegnato le chiavi eravamo euforiche – ricorda Lubis sorridente –, andavamo in giro a vedere chi erano le nostre vicine, ridevamo, piangevamo, ci abbracciavamo. È stato un momento molto bello”. Anche Eidanis aggiunge soddisfatta: “Le case che oggi possediamo ci rendono felici e ci danno sicurezza. Non ci importa di abitare in una zona molto povera, prima non avevamo niente”.

Ed è proprio il “prima” che a pensarci ancora le inquieta, un “prima” fatto di povertà, violenze, abusi sessuali, totale incertezza sul futuro. Quando chiedo loro di spiegarmi in cosa consiste il desplazamiento forzado, me lo raccontano con parole molto semplici, come se lo dovessero spiegare a un bambino: “Il desplazamiento è lasciare la propria terra, la propria cultura, i propri progetti di vita. Cominciare una nuova vita è molto difficile, bisogna trovare un nuovo lavoro, una nuova casa. In più c’è il dolore della perdita di molti familiari e di molti amici”.

È Yajira a rispondere, le altre annuiscono. Tutte hanno vissuto questo trauma ma ancora nessuna parla della propria esperienza personale.

Finalmente Yajira si sblocca e inizia a raccontare: “Il mio primo desplazamiento è avvenuto quando avevo 19 anni, ero già sposata e avevo un figlio. Avevamo una terra a Plato Magdalena, in campagna, arrivarono le Farc e poi i paramilitari e ci minacciarono, ordinandoci di andarcene. Un mio cognato venne fatto sparire, un altro fu assassinato. Così scappammo”.

Trovarono rifugio a Valledupar, una città più grande poco distante: “Era difficile sopravvivere, avevamo bisogno di soldi. Compravamo arance al mercato e le vendevamo per strada, oppure vendevamo la yuca che mio suocero ci mandava da Plato Magdalena. Lui era rimasto là, gli anziani sono più difficili da spostare. Un giorno arrivarono i paramilitari, chiedevano soldi nel mercato, una specie di tassa da versare a loro per avere il permesso di poter lavorare. Mio marito non voleva pagare, non avevamo abbastanza soldi neanche per sfamarci. Avevamo già 2 figli e non voleva compromettersi con loro”. Fa una pausa, incrocia le mani sulle gambe.

“Una sera di un 8 dicembre la bimba era malata, mio marito dopo cena uscì per andare in farmacia a comprare le medicine. Fu questione di un attimo: arrivarono con una moto e gli spararono. Quando mi avvisarono io non ci credevo, era uscito solo un quarto d’ora prima. Uscii e poco più in là vidi la scena, ce l’ho ancora davanti agli occhi, è stata durissima. La polizia mi ha fatto un sacco di domande. Nei giorni successivi ho avuto una specie di crisi di nervi, nella strada avevo paura che mi sparassero, tremavo ogni volta che sentivo una moto che si avvicinava”.

Da Valledupar allora Yajira si è trasferita nella periferia di Cartagena, al Pozon, un quartiere fatiscente dove abitava coi suoi figli in un rifugio costruito con pannelli di plastica e cartoni. Lì ha conosciuto donne con storie simili alla sua ed è entrata a far parte della LMD: “La Liga cresceva in fretta e ben presto si estese anche in altre città.

Le donne iniziavano a esigere il rispetto dei propri diritti, conoscevano la legge, facevano paura. Così arrivarono le minacce, le violazioni, le sparizioni.

Molte donne furono torturate e stuprate, torturati i loro figli. I paramilitari entravano nelle capanne e le stupravano dicendo: ‘Sappiamo chi siete, cosa fate. Cosa siete delle guerrigliere?’ Persino quando andavamo agli uffici pubblici nessuno voleva servirci, ci discriminavano per essere desplazadas. E anche i bimbi a scuola venivano presi in giro. Noi però abbiamo continuato e continuiamo a resistere”.

A questo punto Yajira guarda Eidanis, sembra incoraggiarla e dirle con gli occhi: “Ora è il tuo turno”. Eidanis è riservata, parla a voce bassa e sembra non proferire una parola in più del necessario. Con mia sorpresa, comunque, inizia anche lei a raccontare: “Vengo da un paesino della regione del Montes de Maria, dove a causa del conflitto armato i paramilitari hanno commesso orribili massacri.

Nel ‘98 sono stata costretta a scappare, lasciando là tutti i miei averi, e sono arrivata a Turbaco, dove però c’erano le Farc. I guerriglieri reclutavano i ragazzini, li ingannavano promettendo soldi, oppure altri se ne andavano volontariamente perché si innamoravano. Due cugine di mio marito furono assoldate dalle Farc proprio in quegli anni. Nel 2000, due parenti che erano scappati insieme a noi si sono decisi a tornare nel nostro paesino d’origine per riprendere alcune cose. Sapevano che era molto pericoloso, ma hanno deciso di provarci lo stesso. Purtroppo non ce l’hanno fatta: uno è morto mentre l’altro è stato fatto sparire”.

Di fianco a Eidanis è seduta Analuz Ortega, sembra la più anziana del gruppo e ancora non ha detto una parola. Ha i capelli legati in una crocchia e le gambe secche che si incrociano una sull’altra. Quando inizia a parlare lo fa con grande naturalezza, come se stesse raccontando qualcosa di assolutamente normale: “Quando lavoravo per costruire le case alla Città delle Donne dovevo continuamente spiegare a mia figlia maggiore che non stavo perdendo tempo in giro, ma che stavo facendo di tutto per tirarla fuori da quel posto. Anche noi a quei tempi vivevamo al Pozon, nella periferia di Cartagena, dove nell’aria si respirava droga, dove c’erano stupri, omicidi… Vivevo con le mie figlie femmine e il mio unico maschio, mio marito non c’era. Pensavo io a tutto, lavoravo e intanto andavo anche a Turbaco per costruire la Città delle Donne”.

Una notte, intorno all’una, Analuz viene svegliata dall’arrivo dei paramilitari. “Sono entrati in casa, hanno ribaltato tutto, io gli gridavo di smetterla ma mi hanno puntato la pistola alla tempia. Hanno fatto uscire me e mio figlio, io li supplicavo di non toccare le mie figlie, non ci dovevano neanche provare, piuttosto che prendessero me, che uccidessero me, ero disposta a tutto. Quando finalmente sono usciti volevano prendere mio figlio e portarlo via con loro per reclutarlo. Così mi sono messa a gridare, era il mio unico figlio maschio, non potevano portarmelo via. Urlavo talmente forte che alla fine se ne sono andati senza di lui. Quando siamo entrati in casa, tutti i mobili erano distrutti, buttati a terra, tutti i cassetti aperti e la roba sul pavimento. Siamo corsi nella stanza delle ragazze, ma incredibilmente nessuna si era svegliata. Quella volta ci era andata bene, ma sapevo che sarebbero ritornati. E così ho mandato mio figlio a vivere da una zia, in un paesino lontano, dove era più al sicuro”.

Il giorno in cui la Città delle Donne era pronta, Analuz ci è andata con sua figlia maggiore e le ha mostrato la casa nuova: “Lei saltava, piangeva, rideva, era felicissima. Prima non avevamo acqua, né luce, né gas, non avevamo niente, e ora invece potevamo vivere in una vera casa. Toccava tutto e diceva: “Mamma questo è mio?” e io rispondevo: “Sì amore, è tuo!’ Le ho spiegato che era per questo che negli ultimi tempi ero sempre fuori, che non ero in giro per strada né facevo niente di male, che era per tirarla fuori da quella situazione, per farla vivere in un posto migliore. Adesso abitiamo qui insieme, le mie figlie si sono sposate e hanno anche loro dei bambini”.

Queste donne hanno quindi resistito e sono riuscite a uscire da una situazione difficilissima solo con le loro forze. Purtroppo però anche una volta terminata la costruzione della Città i problemi non sono finiti.

Nel 2007 è stato incendiato Il Refugio, il primo centro multifunzionale che avevano costruito le donne. “L’anno dopo l’abbiamo ricostruito e l’abbiamo chiamato Corazon de las Mujeres (Cuore delle donne, ndr) – racconta Eidanis –. Le intimidazioni continuano ancora oggi: provano sempre a rubare all’interno, e addirittura fuori ci portano via i cavi elettrici”. Per arrivarci camminiamo in mezzo ai campi vicini alla Città delle Donne, è mezzogiorno e il caldo torrido rallenta il passo. Nel percorso incontriamo alcuni bambini, tutti figli o nipoti delle donne che mi accompagnano, che iniziano a seguirci, a strattonare le gonne e a chiedere di essere presi in braccio.

Cinque minuti dopo arriviamo al centro Corazon de las Mujeres, una costruzione con una cucina e un’ampio patio all’ombra, che viene utilizzato per gli eventi e le riunioni organizzate dalla LMD, ma anche come spazio per i bambini. In una parete campeggia un grande murales che rappresenta una donna che tiene in mano una casa in miniatura, mentre altre braccia femminili raccolgono fiori. “Il murales è stato realizzato dalla compagnia di artisti messicani Teatro En Linea De Sombra, che ha organizzato un laboratorio teatrale nella Città e alla fine ha prodotto lo spettacolo Pequeno territorio en reconstruction, che parla della nostra storia e che è stato presentato a Bogotà e anche in Messico. La storia è di impatto, alla fine dello spettacolo la gente piangeva, voleva sapere di più sulla Città, se esisteva davvero, dove si trovava…”

Dopo pochi minuti il caldo ci costringe a tornare nell’ufficio, dove un vecchio ventilatore ci permette di concludere la chiacchierata. Le donne sembrano di buon umore, chiedono ai bambini di andare a giocare fuori e chiudono la porta. A parlare questa volta è Glenis Pajaro, un’afroamericana massiccia dai lunghi capelli ricci: “La verità è che non è facile essere donna in Colombia. Gli uomini si mettono sempre al primo posto e pensano che noi non sappiamo fare niente. Se vedono che una donna studia o ha un lavoro migliore del loro si sentono spodestati. Questo gli dà molta rabbia, rabbia che si può anche trasformare in violenza. Per loro le donne devono solo cucinare e badare ai figli, niente di più”.

Ma nella Città delle Donne invece le cose funzionano diversamente. Sono le donne le intestatarie legali delle case, sono le donne che prendono le decisioni amministrative.

Anche all’interno delle famiglie, con il tempo, si iniziano a vedere i miglioramenti: “Grazie alla Liga e al lavoro di tanti anni, alcuni uomini hanno cambiato mentalità – continua Glenis –. I nostri mariti hanno capito che non siamo solo oggetti e ora ci trattano diversamente. Mio marito, ad esempio, all’inizio non credeva che avrei potuto costruire con le mie mani la nostra casa, pensava che il progetto sarebbe finito in un nulla di fatto. Quando poi è arrivata la chiave della casa nuova, mia figlia gli saltava intorno urlandogli “Papà, papà, abbiamo una casa, finalmente ce ne andiamo da qui!” Ma lui niente, era ancora scettico. Solo quando ha visto la casa coi suoi occhi ci ha creduto davvero, e così ci siamo trasferiti. Adesso viviamo qui da più di dieci anni. A lui piace molto cucinare, in casa mia è lui che prepara il pranzo e la cena!” e scoppia in una risata di pancia.

Naturalmente c’è ancora molto da fare, la strada è lunga, ma l’esempio della Città delle Donne dimostra che con l’impegno i risultati arrivano. “Il processo di resistenza che abbiamo creato è un grande apporto al processo di pace e un modello sostenibile, che vorremmo che altre donne desplazadas replicassero – spiega Analuz. Il nostro progetto è proprio quello di riuscire a costruire altre Città delle Donne nella regione e in tutta la Colombia. Quello che vogliamo è che si mantenga la memoria del passato, affinché non si ripeta mai più quello che è successo. Per questo andiamo nelle scuole a parlare ai giovani e abbiamo fondato la Liga de los Jovenes (Lega dei Giovani, ndr), formata da ragazzi e ragazze che si stanno formando su temi come i diritti umani e la risoluzione dei conflitti. Alcuni sono molto piccoli e non hanno memoria di quello che abbiamo passato, mentre altri hanno ancora vivo il ricordo delle violenze subite. Vogliamo che la generazione futura sia più consapevole e che non ripeta i nostri stessi errori”.

E quando si chiede loro cosa si aspettano dal processo di pace attualmente in atto in Colombia, la loro risposta è categorica: “La pace non si stabilisce con un trattato, ognuno la costruisce dentro di sé. Il processo di pace deve avvenire con la partecipazione delle vittime e dei cittadini, dal basso, non in un ufficio chiuso a Bogotà. Finora lo Stato si è dimostrato indifferente alle vittime, dimostrandosi molto più pronto a dare privilegi ai carnefici. Dai negoziati di pace vorremmo quindi che uscisse una riparazione reale. La LMD ha denunciato più di 100 casi di abusi e violazioni dei diritti, ma ancora non è stato individuato neanche un colpevole. Noi siamo pronte a perdonare, non a dimenticare”.