Aquarius, un anno di salvataggi in mare

Un reportage multimediale dalla nave
di Sos mediterranee e Medici Senza Frontiere

testi, foto e video di Andrea Kunkl

Il primo soccorso avviene dopo tre giorni che mi sono imbarcato sulla nave Aquarius, della ong Sos mediterranee e Medici Senza Frontiere. E’ notte, il mare è agitato, salgo sulla barca numero 1, ed in pochi minuti siamo a ridosso di un canotto pieno di persone, non si vede nulla.

Si sentono solo grida e la voce del mediatore di Msf che invoca la calma in francese e inglese. Difficile fare foto. I ragazzi della Dignity, vascello di Msf, danno supporto lanciando giubbotti di salvataggio.

In pochi secondi iniziano ad arrivare bambini piccolissimi che gridano e mordono mentre la tensione sale, la vedo nella faccia di Max, inglese e deputy coordinator, nonché comandante e responsabile dell’imbarcazione, che nonostante tutto mantiene la calma e la trasmette all’equipaggio: David, Antoine ed un altro fotografo che lascia la camera per aiutare, arrivano poi donne e madri, una pare sia incinta. Tutte hanno il terrore negli occhi. La realtà appare come un girone dantesco.

Nessuno finisce in mare, l’operazione di salvataggio riesce perfettamente e dopo ore centinaia di persone sono salve a bordo dell’Aquarius. Gli vengono dati vestiti caldi, the e pane.

Cosi inizia la mia avventura a bordo della nave, che da febbraio 2016 ha salvato migliaia di persone. Il mio turno è di tre settimane, vengo assoldato come fotografo e videomaker. Non mi aspettavo l’azione immediata, dopo soli pochi giorni e con un solo training fatto il giorno prima.

Oltre che un blando addestramento in caso di attacchi ostili, perché tra le zone che copriamo a venti miglia circa dalla costa, c’é Homs, in mano a Daesh, che con le motovedette potrebbero esserci addosso in poche ore. In quel caso scatta una sirena e ci dovremmo chiudere tutti in una stanza di sicurezza, entro cinque minuti.

Il problema concreto è di trovare quella stanza in pochi attimi, il problema morale sarebbe quello di lasciare centinaia di ospiti in balia degli eventi, mentre noi ce ne stiamo comodi rinchiusi in una stanza con porte blindate, televisione e biscotti.

La zona dove operiamo è definita sar zone, i vascelli delle ong sono diversi (SeaWatch, Msf, Sos Mediterranee tra gli altri), ed il viaggio tra Catania porto principale di attracco e sbarco e questa area dura circa 36 ore. Si cerca di coprire tutta l’area internazionale fuori dal mare libico, dal est al ovest, perché non si sa mai da dove partono i rubber e wooden boat delle persone migranti. Pare che ce ne siano decine di migliaia che aspettano sulle spiagge libiche.

I loro racconti della vita passata in Libia sono raccapriccianti. Diventano schiavi, vengono rapiti e viene chiesto un riscatto ai parenti a casa. Una fine orribile aspetta chi non ha nulla da dare. Tutti attraversano centri di detenzione dove non c’è cibo e acqua. Mediamente rimangono bloccati in libia per 6/8 mesi. Ma solo chi ha a casa parenti in grado di pagare un riscatto e chi ha i 500 euro per salire su queste barche potrà lasciarsi la Libia alle spalle, consapevoli che i volontari delle ong saranno là fuori ad aspettarli, oppure la morte.

Quando li facciamo disegnare la loro idea di libertà sono diversi quelli che disegnano mosche, api e cobra, a ricordare il loro viaggio costellato di morti e i libici letali come serpenti. Ma sono anche molti che disegnano fiori, la “Mama Africa” che hanno dovuto abbandonare per guerra o per speranza.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Un ragazzino di sedici anni disegna il simbolo del Barcellona, lui vorrebbe diventare una star. Tra i tanti che ora sono ospitati sul ponte e nello shelter della nave, c’è un bimbo di 10 anni, arrivato solo ed unico responsabile di altri tre bimbi, molto più piccoli di lui.

Questo ragazzo fa il disegno più bello, una piroga. Un nigeriano mi racconta che è scappato da casa quando i bianchi hanno trovato il petrolio nel suo terreno, il giorno dopo sono arrivati quelli del villaggio vicino a uccidere suo padre, perché ora il terreno è loro. Lui riesce a nascondersi e poi a scappare ed in Europa vuole solo fare i soldi per tornare a casa, riprendersi ciò che gli appartiene: “ Il mio unico sogno è la vendetta”.

La prima notte un ragazzo sembra avere degli incubi, si mette seduto e gesticola da solo, lo guardo mentre dopo pochi attimi crolla inanimato: a nulla servono i tentativi del medico e dei volontari, muore cosi, come se solo l’adrenalina lo avesse tenuto in vita e ora, che si sentiva sicuro e salvo, la vita lo abbandona.

Gli altri però sono vivi. Salvi. Facciamo altri soccorsi, e transfer dalla Dignity e dalla nave Maidan dove spuntano creste e sguardi libertari. Ancora una situazione dantesca, ancora il mare grosso, la barca numero 2 imbarca acqua e per poco non si ribalta in mare. Le onde schiacciano la nostra barchetta contro il fianco della Maidan e poi a quello dell’Aquarius che dal mare appare gigantesco.

Arrivati alle porte di Catania esplode l’entusiasmo, i ragazzi ballano cantano e facciamo un ritratto di gruppo. Pochi sanno quello che li aspetta e la questione più dura da reggere è quando ti abbracciano e ti ringraziano per avergli salvato la vita.

La prima settimana si conclude con un applauso dalle persone stipate sotto i tendoni del porto di Catania, circondati da esseri coperti da tute lunari, occhiali e mascherine che gli lanciano panini come se fossero bestiame. Si litiga per il corpo del morto, giudice e Scientifica pretendono che esca per primo; prima dei vivi. Non c’è verso, Ferry coordinatore di Msf s’impunta, prima escono i vivi, è una questione di anima e rispetto. E’ una questione di pietas e gentilezza.

Dopo altre 36 ore, appena tornanti nella rescue zone compare Rastaman, lo vedo da lontano su di un gommone che sta affondando, stipato di esseri umani terrorizzati con l’acqua alle ginocchia, mentre lui sorride. Viene dal Ghana e già dal mare si vede che è uno che in Italia c’è la farà.

Lo si capisce da come affronta l’insicurezza della morte. Lo si capisce dallo sguardo furbo e dal perenne sorriso: “Big up rasta man”, gli grido da lontano, e lui se la ride e fa cenno con un braccio. Vede finalmente la pace dopo la scabbia, la detenzione, otto mesi di Libia dove tutti sono armati e dove la pelle nera trasforma persone in merce.

Riusciamo nuovamente a portarli tutti quanti sull’Aquarius senza nessun incidente, il sar team di Sos Mediterranee è affiatato ed in mare Max gestisce la gestione con serenità.

In tre settimane e diversi soccorsi non l’ho mai visto perdere la calma. Per tutti gli ospiti il tragitto in mare sull’Aquarius significa il momento migliore della loro vita. Nonostante il mal di mare ed il vento perenne.

Il transfer successivo è di superstiti che arrivano terrorizzati ed ancora bagnati, il gasolio del gommone che prende fuoco, il naufragio in acqua dove i più non sanno nuotare. Vedo arrivare donne ustionate e gente fradicia e seminuda ancora con il terrore negli occhi. Ancora bambini piccolissimi.

Un ragazzo racconta di come il gommone si è afflosciato su se stesso e la gente è rimasta soffocata sotto altra gente. Una famiglia intera, madre, padre e figlio. Lui si è salvato e non sa bene come.

Dalla radio, nel ponte di comando, sentiamo quelli della ong SeaWatch, che, durante un operazione di salvataggio, vengono bloccati dalla guardia costiera libica: manganelli alla mano saltano su di un gommone di persone migranti e cominciano a colpire i presenti. Diversi finiscono in mare dove non sapendo nuotare annegano miseramente.

Il giorno dopo, un pescatore libico, sempre attraverso la radio, chiede aiuto: “Tanta gente sta annegando”. La Guardia Costiera manda un velivolo in ricognizione ma non trova nulla. Tornano indietro. L’Argos (altro vascello di Msf) incrocia un gommone alla deriva dove sono tutti morti, probabilmente soffocati. Ora sulla nostra nave nessuno mangia più del pesce nonostante la bravura dei cuochi nel cucinarlo quotidianamente.

Disegni di migranti salvati dalla nave Aquarius nel Mediterraneo centrale. Musica di Giacomo Sferlazzo: “Vivere è impossibile”.

 

In poche ore l’Aquarius è di nuovo pieno di ospiti e siamo pronti al rientro. La Guardia Costiera ci consegna a Taranto, 24 ore in più di viaggio rispetto a Catania. Sul ponte non ci si può muovere, non c’e’ spazio, ci sono più di 500 persone esauste, ma vive.

I loro occhi brillano di speranza. I volontari non dormono per giorni, c’è chi insegna italiano, chi distribuisce cibo, sistema le pompe e i filtri per l’acqua e pulisce i bagni chimici, l’ostetrica e il dottore non si fermano un secondo mentre solchiamo il mare verso le porte dell’Europa.

Che appare cupa al ritorno, sbarrata, colma di retorica e di silenzio. Lo spettacolo infinito del confine che produce denaro, morte e umiliazione. Un altro applauso mentre si chiudono le quinte della mia esperienza a bordo dell’Aquarius.

Terra libera, terra di tutti è l’ultimo sussurro tra i denti di Rastaman quando ci salutiamo mentre i suoi compagni baciano la terra promessa. Solo a lui e a pochi altri ho avuto l’opportunità di suggerire quello che li aspetterà una volta arrivati in Italia. Il paradiso per loro può attendere.

Il 2016 è l’anno in cui sono morte più persone in mare, esattamente 4621 hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, è ora più che mai necessario garantire un corridoio umanitario in cui le persone, tutte, possano viaggiare in sicurezza.

Un visto umanitario e la successiva possibilità di richiesta d’asilo. Ciò permetterebbe la fine di questo massacro senza senso e del gigantesco profitto che produce. Basterebbe che queste persone potessero prendere un aeroplano, pagandolo, come d’altronde possiamo fare tranquillamente noi occidentali quando visitiamo l’Africa.

Il mare non è il nemico del uomo, è l’uomo ad essere sempre stato l’unico vero nemico dell’uomo.