L’isolamento dal mondo, la scomparsa e l’annullamento di sé in un saggio socio-antropologico di David Le Breton
di Agostino Matranga
Sembra un paradosso ma a pensarci bene non lo è: nell’epoca planetaria delle connessioni è sempre più diffusa la tentazione, e la necessità con il conseguente passaggio all’atto, di staccare la spina. Zero relazioni via etere ma anche in presenza.
Cancellarsi, allontanarsi dal mondo delle relazioni fino ad isolarsi in modo completo, definitivo. Fuggire da sé è il titolo di un interessante libro di David Le Breton, sociologo e antropologo francese, che prende in esame, sotto vari aspetti, proprio questa sindrome della modernità.
Non che questo fenomeno sia nato oggi, ma negli ultimi vent’anni la sua diffusione è notevolmente aumentata come testimoniano trasmissioni televisive di successo, “Chi l’ha visto” in Italia, “Disparus? Comment les trouver” in Francia e chissà quante altre trasmissioni di questo tipo nel resto del mondo.
Ci sono vari modi per “fuggire da sé”: lo si può fare rimanendo nello stesso luogo come Emily Dickinson che a trent’anni non esce più di casa, si rifugia nella propria stanza, non riceve più nessuno; come unica forma di dialogo, per lo meno con se stessa, ha la scrittura ma non pubblica nulla mentre è in vita. Emily ha perseguito con pervicacia l’invisibilità e, per lo meno in vita l’ha ottenuta, quanto è avvenuto dopo non sono vicende che la riguardano.
E si può scomparire fisicamente come Ettore Majorana, il giovane fisico italiano che il 25 marzo 1938 fa perdere le sue tracce. Invece di raccogliere i frutti della sua genialità, scompare.
Nel testo ci sono molti riferimenti letterari a cominciare da Robert Walser, un grande autore – a sentenziarne il valore sono scrittori come Benjamin, Kafka, Musil, Hesse – che conduce una vita di pieno isolamento, diserta gli ambienti letterari, accetta tutti i lavori dal commesso al fattorino al lustrascarpe, lavori che gli consentono l’anonimato, la possibilità di rifiutare un’identità che sente come un peso.
Finito al sanatorio di Herisau non scrive più, si disinteressa dei suoi libri, azzera completamente la sua personalità in un’acquiescenza totale alle regole dell’istituzione. Altro riferimento è Ferdinando Pessoa che con i suoi eteronimi – veri e propri alter ego di scrittori con temi e stile tra loro diversi e in qualche occasione in polemica tra loro – annega in una molteplice identità la sua vita di semplice impiegato in una ditta di import export e scrive per il suo baule in cui verranno ritrovati, alla sua morte, i manoscritti di una sola moltitudine come l’ebbe a definire il nostro Tabucchi.
Meno convincente è la vicenda di Lawrence d’Arabia, che dopo aver vittoriosamente guidato le tribù dell’Arabia settentrionale contro i turchi, vede tradita da francesi e inglesi la sua aspettativa di creare uno Stato arabo autonomo.
Le potenze coloniali si spartiscono il territorio e Lawrence entra nell’incognito col nome del soldato semplice Ross. E da quel giorno non ne vuole più sapere dell’insieme di relazioni che ha avuto in precedenza.
È vero, entra nell’anonimato ma il rifiuto della sua immensa celebrità ha più a che fare con l’affermazione di una forte identità, che non si piega ai compromessi della storia, piuttosto che a un’evasione nell’oblio dell’anonimato.
I riferimenti ai personaggi di Beckett o a Bartleby lo scrivano di Melville, o a Oblamov di Goncarov sono meno convincenti per suffragare le finalità dell’indagine dell’autore che, ricordiamolo, vogliono essere sociologiche e antropologiche, ovvero non riguardano la letteratura ma gli esseri viventi. Infatti un conto è parlare della vita degli autori, di persone in carne ed ossa, e un altro quello di parlare dei loro personaggi letterari.
Tutto si può dire tranne che Beckett e Melville o Goncarov non abbiano lottato per affermare la propria identità di grandi autori dalla forte personalità. E la letteratura del Novecento è piena di personaggi disadattati che rifiutano di mettersi in relazione con il mondo o che sono da questo rifiutati perché incapaci di assumerne le regole: certo in Beckett, Kafka ma anche in Sartre, Camus, Pirandello, Moravia e molti altri. Insomma per lo scopo dell’indagine, la vita degli autori è oggetto pertinente, quella dei loro personaggi molto meno.
Rendersi invisibili agli altri e a se stessi, staccare la spina, cancellarsi. Essere stanchi della complessità della vita, ormai indifferenti al proprio ruolo sociale e, soprattutto indifferenti a se stessi.
Perché quanto stiamo descrivendo, non è un isolamento cercato per una sorta di ricerca spirituale, nessuna forma di meditazione né credo ideologico, solo una grande stanchezza che svuota il corpo e la mente di energia: una condizione di biancore – così la definisce l’autore –, una nebbia che preclude la visione e rende opaca la vita. Una pagina bianca nella quale non si vuole né si può scrivere nulla. Un vuoto, un’assenza progressiva fino a diventare assoluta.
Il biancore, questa inconsapevole resistenza ad assumere un’identità definita, questa incapacità di mantenere un ruolo, questo lasciarsi andare alla deriva rende chi la vive oggetto, anziché soggetto della propria esistenza. È il rifiuto della condanna di poter scegliere, la “condanna alla libertà” come scrive Sartre.
La tecnologia ci obbliga a vivere nel tempo dell’urgenza infinita: sempre presenti a noi stessi e agli altri in una sorta di connessione perenne che per un verso è isolamento dal tempo reale – quando si compulsa lo smartphone per giocare, per essere perennemente informati o per dare testimonianza al mondo, attraverso i social, che esistiamo, che la nostra vita è sfavillante – e per l’altro è alienazione vera e propria: una disponibilità verso gli altri, in particolare nel nostro lavoro, che non ci permette mai di staccare e diventa sempre più pressante aumentando le responsabilità nella propria attività. C’è chi non stacca mai e alla fine è burn out, alla fine c’è lo scoppio.
Molte sono le fughe da sé prese in esame da Le Breton, alcune indotte come la depressione, malessere che oggigiorno va per la maggiore, condizione psichica in cui il tempo si azzera, tutto diventa immobile, difficile, mostruosamente inarrivabile. A volte alla base di questo c’è un trauma, un lutto, una cocente delusione della vita, ma altre basta un nonnulla, una goccia e il vaso trabocca.
La definizione migliore di questo stato l’ha data Cioran – in fatto di depressione un vero specialista – scrive: “Io non lotto contro il mondo, io lotto contro una forza più grande, la mia stanchezza del mondo”.
Nel libro vengono presi in esame molti casi di fuga da sé, a cominciare dall’adolescenza che rifiuta l’età adulta e il suo carico di pene e responsabilità: dallo scivolamento nel virtuale, all’autolesionismo dello sballo e dei disturbi alimentari (anoressia), all’isolamento/reclusione nella propria camera (hikikomori).
E in riferimento alla terza età, non vengono tralasciate neuropatologie, come il Parkinson o la demenza senile, in cui il disinvestimento di interesse verso il mondo è indotto da cause fisiche. Qui il distacco è visto più dalla parte dei parenti, dei mariti e delle mogli che non riconoscono più il loro caro, che dai malati.
A questo proposito l’autore ricorda come il rapporto con questi anziani, per quanto difficile, deve essere tenuto in vita perché un barlume di coscienza permane. Nel documentario “Une June fille de 90 ans” di Valeria Bruni Tedeschi questo viene confermato: in una casa di riposo per degenti con demenza senile, una paziente si innamora del ballerino che viene nel pomeriggio a intrattenerli.
David Le Breton, Fuggire da sé, Raffaello Cortina Editore, Euro 19