Viaggio nell’archivio dell’ex manicomio di Siena alla ricerca della storia sociale
di Francesca Roggi, tratto da Lavoro culturale
Nell’ambito di Siena Città Aperta si è svolta una tavola rotonda dal titolo “Le voci e l’archivio: storie dal S. Niccolò di Siena”, da noi organizzata insieme a Culturing. In questa occasione le archiviste che stanno lavorando alla catalogazione del materiale hanno illustrato lo stato dei lavori, i progetti futuri e una breve rassegna delle principali tipologie documentarie presenti, per far conoscere la straordinaria ricchezza dell’archivio storico, di proprietà dell’Azienda Usl Toscana sud est.
L’Ospedale Psichiatrico San Niccolò, dalla sua fondazione nel 1818 alla sua chiusura definitiva nel 1999, ha prodotto un ingente archivio, smembrato all’epoca del passaggio gestionale dalla Società Esecutori di Pie Disposizioni, l’ente fondatore, all’Unità Sanitaria Locale, istituita con la riforma sanitaria nel 1978.
Alla prima è rimasta la documentazione a carattere amministrativo, patrimoniale e finanziario, alla seconda (oggi Azienda USL Toscana sud est) è passata invece la documentazione clinica.
L’archivio storico conservato dall’Azienda USL ha una consistenza complessiva di circa 1700 unità: una mole enorme di materiale ancora in parte da esplorare.
Uno sguardo attento ai documenti, individuati dagli studiosi durante le loro ricerche o capitati tra le mani in maniera talvolta un po’ casuale, fa emergere non solo le storie dei singoli pazienti, ma anche preziose informazioni, immagini e tracce del passato, una vera miniera di interesse storico, sociale, antropologico, socioeconomico o medico.
Tra questi, le cartelle cliniche costituiscono la serie più importante, all’apparenza completa e in buono stato di conservazione, e anche la più consultata, per via della sua complessità e ricchezza, nonché per la notevole consistenza: più di 50 mila cartelle distribuite in un arco cronologico che va dal 1842 al 2000.
La prima cartella è datata 1842, benché in questa fase l’uso di questo strumento clinico fosse ancora sporadico. A dimostrazione dell’assenza di lacune nella serie, la numerazione è continua e tuttavia l’intervallo cronologico tra le prime cartelle è molto ampio: possiamo ipotizzare che in questa prima fase non venissero ancora costituite cartelle per tutti i pazienti, mentre invece erano registrati puntualmente tutti gli ingressi negli appositi registri di ammissione, fin dalla fondazione dell’istituto.
La forma della cartella clinica rimarrà sufficientemente costante negli anni, ma aumenterà la sua consistenza con l’aggiunta di referti o altra documentazione amministrativa. Inizialmente il contenuto poteva essere molto vario e spesso era redatto in maniera discorsiva, quasi una narrazione, descrivendo prima il paziente al momento del suo ingresso e poi raccontando il decorso della malattia nel diario clinico.
Le cartelle al loro interno conservano talvolta diverse tipologie di allegati. Fin dalla metà del XIX secolo si possono trovare sporadicamente referti di esami clinici, come esami delle urine o tabelle della temperatura corporea, oppure si trovano copie delle cartelle cliniche di altri istituti manicomiali o di altri ospedali, o appunti di vario genere scritti dai medici, come ad esempio le bozze per un articolo scientifico in una cartella del 1872 su un caso di cisticerco del cervello, o pubblicazioni vere e proprie, estratte dalla Cronaca del Manicomio sotto forma di piccoli fascicoli ed allegate alla cartella.
A partire dagli anni ’10 del Novecento si comincia ad allegare alla cartella una fotografia del paziente, mentre un’altra copia della stessa era conservata a parte, in grandi album ordinati alfabeticamente fino al 1954 e in ordine cronologico di ammissione dal 1955, per un totale di circa 20 mila foto, dal 1915 al 1969.
Molto frequenti sono le perizie psichiatriche redatte dai medici del San Niccolò per valutare la presenza di malattia mentale o meno in soggetti colpevoli di gravi crimini.
Se ne trova una in una cartella del 1871, che colpisce per la sua voluminosità e per la grafia estremamente curata. Inizia così:
Era la mattina del 1 luglio 1871. Due sconosciuti, un uomo e una donna, si avvicinavano alla riva del lago di Montepulciano cercando d’una barca per passarlo. Avevano sembiante diversamente turbato; l’uomo, che sembrava più smarrito, camminava senza scarpe e con le calze. Era sulla riva una barchetta condotta da una giovanetta pescatrice. L’uomo le domanda «Citta mi passi all’imboccatura del fiume?» E convenuto del prezzo (…) entra pel primo in barca e dà mano alla donna, la quale nel salire pronunzia dolente queste parole: «Questa è la prima e l’ultima volta per me».
Si tratta della perizia psichiatrica di un uomo che ha affogato la moglie nel lago di Montepulciano di fronte a testimoni. Il racconto dell’uxoricidio ha un tono quasi romanzato, ma non si tratta affatto di un’eccezione per l’epoca.
Dopo aver raccontato l’episodio, vengono riportati gli interrogatori avvenuti in carcere e la perizia dei due medici del tribunale, che sospettando la simulazione decidono di inviare l’uomo al manicomio.
Segue la perizia vera e propria, con la descrizione dell’imputato, Virgilio, un cuoco di 38 anni, con le testimonianze dei conoscenti (datori di lavoro e colleghi) e il racconto dei giorni precedenti passati girovagando per le campagne intorno a Montepulciano in stato confusionale.
Ed è qui che il racconto si fa più interessante, perché gli incontri e i dialoghi che l’uomo ha con contadini, barrocciai o una guardia dei fossi, danno un’immagine viva del contesto sociale e delle relazioni umane, dimostrando per esempio quanto fosse facile avere ospitalità in casa di contadini per una notte. Il giorno prima dell’omicidio la coppia incontra una contadina, cognata della donna:
Essi incontrarono la Giuditta alla fonte a lavare. Noi lasceremo parlare la Giuditta che parla il linguaggio ingenuo della verità. Erano tutti e due di buonissimo umore e mi fecero molta festa, e mi dissero che erano venuti a cercare mio marito Settimio per pregarlo di trovargli una casa in Montepulciano, dove intendevano stabilirsi prendendo in affitto la bottega d’un certo Pio (…). Ed avendo costì un mio citto che guardava la maiala e gli dava le vette de’ baccelli, Virgilio si mise a cogliere queste vette, ne fece una bracciata e le portò al mio citto. Poi colse i baccelli e gli portò alla Caterina che si era messa a sedere alla meriggia e cominciarono a mangiarli insieme, scherzando tra loro in buona armonia, gettandosi persino l’uno contro l’altro le bucce (…). Finito che ebbi di lavare i panni Virgilio mi aiutò a portargli a casa ed ivi arrivati insistei nuovamente per dargli da mangiare, ma non ne vollero e bevvero solo un po’ di vino per gradire. E siccome si era fatto quasi buio vollero partire e io gli detti delle patate, dei fagiolini e delle cavolelle ed altro che essi gradirono tanto, e tutti e due mi ringraziarono tanto, dicendomi che quando si fossero sistemati un giorno avrebbero comprato della carne e sarebbero tornati a casa mia a fare una maccheronata (…). E quanto a me Virgilio mi sembrò perfettamente sano e con la testa a sé.
Tuttavia, finito il periodo di osservazione, l’uomo viene riconosciuto alienato di mente, con una diagnosi di lipemania con delirio di persecuzione e tendenza al suicidio e viene confermato il ricovero. Segue il diario clinico con scarse variazioni fino alla morte avvenuta nel 1890.
Ancora più frequenti sono le lettere scritte dai pazienti e mai spedite, oppure rivolte al Direttore, prevalentemente per richiedere di essere dimessi, oppure lettere successive al ricovero o lettere di parenti che scrivono per avere notizie.
Una lettera molto particolare si trova in una cartella del 1884, è rivolta al Prefetto della Provincia di Siena ed esordisce così:
Eccellenza, mi chiamo Piero e son figlio (legittimo) di Ferdinando di Lorena, e per conseguenza, nipote di Umberto di Savoia, di lei sovrano. E pare che la qualità di principe del sangue non basti a mettere al coperto dalle persecuzioni. Quante ne ho passate dal giorno della mia nascita ad oggi! (…) Mi basti dire che sono più di 6 mesi che mi trovo rinchiuso nel Manicomio di questa città, ove mi si tiene non per curarmi come alienato (non lo sono o lo sono il meno degli altri viventi tutti), ma per torturarmi fisicamente e moralmente, a nome non so di chi. Mi giova sperare che il re d’Italia non sappia nulla, altrimenti si sarebbe affrettato a mostrare che con suo padre non è morto il galantomismo.
A scrivere è un tipografo senese, arrestato a Lugano mentre andava a Vienna dai parenti perché convinto di essere Piero Leopoldo di Lorena.
Gli viene diagnosticata una monomania intellettuale, mostra un discreto grado di istruzione, ma è in costante stato di esaltazione, per cui viene spesso isolato al Conolly – il reparto destinato ai “clamorosi”, uno degli ultimi esempi di struttura panottica ancora integra – dove legge moltissimo, scrive poesie e numerosissime lettere, soprattutto al Direttore, ma anche al Ministro dell’Interno Giolitti, al Prefetto di Bologna, e addirittura al Re.
Ecco l’inizio di un’altra lettera:
Ho sognato ch’ero morto all’improvviso… spero che il sogno non s’avveri, almeno nel Manicomio… (…) Spero che la giustizia avrà il suo corso e in caso contrario che qualcuno mi vendicherà. Sono più innocente e più martire di cento mila Gesù Cristi presi insieme. Non ho altri difetti che quelli d’esser plebeo (figlio d’un facchino) e d’essere stato educato alla spartana (…). Mi dimetta, e se fuori morirò di fame mi affretterò a tornare qui. (…) Forse è meglio aggiustarsi tra noi tre (lei, il primario ed io). Se mi dimettete entro il mese corrente perdono tutto e tutti, altrimenti niente perdono! Alea iacta est! Con verace ossequio.” In un’altra lettera espone la sua richiesta di trasferimento in rima: “Qui tutti mangian senza lavorare/ io debbo lavorare senza mangiare/ non so perché Giolitti lascia fare/ ma la tragedia non potea durare./ Signori miei movetevi a pietà/ Fate ch’io vada alla Mendicità.
Nel 1913 verrà finalmente accontentato e trasferito al Pio Ricovero di Mendicità di Siena.
Accanto alle cartelle cliniche troviamo altre serie rilevanti: le module informative, compilate dai medici condotti e firmate dall’autorità che dispone il ricovero, dalle quali emergono le situazioni prima dell’arrivo del malato; i registri di ammissione, con indici e rubriche, a partire dal 1811; registri di statistica e movimento dei malati; un registro dei tignosi e uno delle gravide occulte, entrambi di metà 800, a testimonianza della presenza di queste due categorie di soggetti in epoca più antica; la serie dei Giornali del San Niccolò (1840-1859), sorta di precedente delle cartelle cliniche, un diario giornaliero con annotazioni sulle ammissioni e dimissioni, terapie, anamnesi, decorso delle malattie (“Questa notte la nuova venuta ha dormito poco.
È stata fuori dal letto per qualche tempo ed ha fatta di sua occupazione il canto ed il vuotare il saccone delle foglie, che si sono trovate sparse per tutta la camera”), resoconto di autopsie, notizie dei parti delle gravide occulte (“Stamattina a ore 10 l’occulta n° 625 s’è sgravata dopo lungo travaglio d’una bambina”).
Infine va segnalata la presenza di un piccolo fondo a parte, quello della Clinica psichiatrica universitaria, risalente alla fase in cui questa si trovava all’interno dell’Ospedale Psichiatrico, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. È costituito da pochissimi registri e fascicoli di nosografie, suddivisi per anno accademico, riguardanti casi pratici assegnati e illustrati dagli allievi.
Davanti agli occhi del ricercatore, degli ex-pazienti e dei loro familiari, o del semplice curioso, l’archivio schiude un patrimonio ingente e stratificato, in buona parte ancora da scoprire. Un materiale prezioso, da interrogare e approfondire, per mantenere viva la memoria di questo luogo e indagare la storia tra Ottocento e Novecento attraverso le storie degli esclusi e degli ultimi.