Oggi sciopero. Il conflitto di potere che riguarda la condizione delle donne è antico e contemporaneo, al tempo. Una lunga marcia che vive anche, e soprattutto, di simboli. Con un ‘ma’, unisex.
di Angelo Miotto
@angelomiotto
Ex-operari, cessare dal lavoro, dalla fatica, sciopero. L’8 marzo è ‘lotto marzo’ nel 2017. Il grido che parte dall’Argentina e che ha raggiunto il globo nei capillari social ha trasformato questa festa, che non è una festa, ma una Giornata della Donna, in una giornata di rivendicazione simbolica forte, decisa.
C’è dibattito. Voi scioperate? Utile, inutile, faticoso, non ce lo si può permettere, sarò in piazza con i toni che si confanno a chi non deve – giustamente – chiedere nulla, ma esigere. Tante risposte, sparse nel virtuale che oggi diviene fisico, nelle piazze. Quindi, lo sciopero dell’8 marzo 2017 è global e però, come sempre accade, ognuno ci metterà il suo significato. Perché le problematiche sono tante e i fronti aperti nel cammino dei diritti, forse, anche troppi.
Ma andiamo da Augustina Paz Frontera, in Argentina, che ha acceso la scintilla con Ni Una Menos. Chi sciopera? Risponde a Metronews: «Donne di tutte le estrazioni sociali, appartenenze politiche, età, città, culture. In Argentina, abbiamo ottenuto l’appoggio dei principali workers’ centres al fine di garantire che le donne che lavorano in una situazione formale di dipendenza possano farlo senza rischi. Ma questo sciopero si propone in particolare di rendere visibile il nostro lavoro non retribuito. Le donne che lavorano in casa, prendendosi cura dei familiari, sono le più vulnerabili. Non vengono retribuite per il lavoro che svolgono e la mancanza di autonomia le può perfino rendere incapaci di svincolarsi da un legame violento». E aggiunge: «Abbiamo scelto lo strumento dello sciopero perché le nostre richieste sono urgenti. E lo sciopero è in nome di tutte, occupate e disoccupate, dipendenti e coloro che ricevono sussidi e gli studenti, perché siamo tutti lavoratori».
Sciopero è una parola che va oltre a quello che conosciamo. Di riflesso pensiamo che possa scioperare solo chi interrompe un flusso coordinato, o comunque stabile. E però abbiamo imparato ormai da diversi anni che l’intermittenza, la precarietà, l’informalità e lo sfruttamento ci indicano un altro significato più vicino all’etimo che ricordavo in apertura di questo blog.
Cessare dalla fatica, che non è sempre un lavoro riconosciuto, che non è solo un lavoro, ma anche condizione e una problematica irrisolta. Sciopero come protesta, come rivolta – non abbiamo paura di usare parole e significati, come accade ormai per il perbenismo ipocrita (una volta si sarebbe detto ‘borghese’).
Una rivolta. Finalmente. I corpi in piazza. Finalmente. La lotta è quotidiana, questo va riconosciuto alle migliaia di donne che hanno fatto di questi temi una battaglia e una ragione di vita. Ma.
Ecco il ma che ci deve far riflettere. La chiamata di oggi a quante donne – lasciamo perdere gli uomini solo per un momento, ma senza appartarli dal discorso – a quante donne parla? Questo messaggio è chiaro? Alcuni di noi scrivevano per E il Mensile e ricordano una rubrica fissa, Casa dolce casa, curata da Stella Spinelli, che teneva il conto e narrava in qualche rigo delle violenze di genere che spesso, percentuali altissime, si consumano fra le mura di casa, appunto. Era un lavoro faticoso, ma necessario. Quotidiano.
Un lavoro quotidiano che non si esaurisce nella Giornata che chiama il riflettore, che è simbolo, che è il momento di tante verità che si raccontano e anche di tante ipocrisie che vivono di una folata di parole urlate per senitrsi allineati.
Oggi nelle piazze sarebbe bello che ci fossero tante giovani donne. Ma non solo, oltre a giovani con voglia di consapevolezza. Non solo dei numeri tragici, quelli ahimé continueremo a pubblicarli e a censirli. Consapevoli che si può e si deve trovare una maniera, anche diversa dall’urlo dello sciopero, di essere contro e quindi a favore di una cultura diversa. Anche nuova, a partire dalle lotte e battaglie stratificate.
Ecco il grande MA che è alla fine unisex, ed è uno dei mantra che non possono che tornare in tutto ciò che richiede dalla forza e dall’energia della società la spinta per spostare l’asticella sempre una tacca sopra, per ottenere un diritto in più: come faremo a ricostruire su una società divelta da così tanti anni di celebrazioni del cafonal, intriso di machismo e di una raffigurazione della donna come sottomesso oggetto del piacere o di raffigurazione quasi esclusivamente di corpo da scoprire o da celebrare per le curve e non delle meningi? Come faremo a parlare e a spiegare a questo grande e disgraziato paese allergico alla spinta di emancipazione culturale che ci sono strade diverse, che l’impegno sociale è più importnte dell’indivdualismo spinto di successo, che anche i diritti ‘vanno di moda’ e che rivendicare un percorso è tremendamente sexy?
Abbiamo un grande cammino da compiere, nella comunicazione, nella pubblicità, in tutti i canali di massa, nella gestione della massa e dei suoi bisogni, quindi nella politica.
Abbiamo bisogno di donne e uomini all’altezza della situazione, con visione di futuro, di come si possono cambiare le percezioni di una parte rilevante della società. Alleanze, insomma. Non solo convegni, non solo cifre orribili che colpiscono la pancia, anche se utili per capire la gravità, non solo una narrazione delle vittime che sposti sul campo della pietas, non solo – anche se utili meccanismi – di quote rosa di facciata, o di giunte ben divise per far bella figura. Gesti e politiche vere, quotidiane. Altro che orologi biologici!
Lottare è rivendicare con gesti e con corpi. E lavorare nel capillare ogni giorno, nel e sul linguaggio a partire da quei corpi intermedi che citavo qui sopra e che oggi ahimé sono saltati nel nome della facile popolarità e della battuta becera che svelano, ancora una volta, quanto siamo distanti dal recuperare almeno un luogo dell’intelligenza e non del muscolare cameratismo.
Buona rivolta, oggi.
Ogni giorno.