Un ponte tra Albizzate e la Siria

Fatima, Hussein, Ghaith e Aya, fuggiti in Libano dal conflitto siriano, in Italia con un corridoio umanitario

di Davide Lemmi

“Davide!”, Ghaith, 11 anni, mi corre incontro urlando e sorridendo, mentre Aya, la sorella di 13 anni, si sistema il velo dall’altra parte della strada.

Insieme a loro c’è Paola, volontaria di Operazione Colomba in Libano. Hussain, il fratello maggiore di 18 anni, ci aspetta sulla porta di casa: un “ciao, come stai?” in un italiano alle prime armi e siamo nel salotto dell’appartamento di Albizzate, Verese.
Fatima, la mamma, ci fa sedere intorno al tavolino mentre finisce di preparare il pranzo.

Sono passati poco più di due mesi da quando incontrai per la prima volta Ghaith, Hussain, Fatima e Aya nel campo profughi di Rekhanye, regione dell’Akkar, Nord del Libano. In 70 giorni la loro vita è cambiata radicalmente: saliti su un aereo da Beirut a Roma, hanno deciso di reinventarsi la vita lontani dalle incertezze, dalle violenze e dalla disperazione di un passato pesante.

Fatima guarda adesso i suoi tre figli con speranza. Nella tenda del campo profughi di Rekhanye ci raccontò in lacrime le conseguenze della guerra, della sua guerra personale. Il figlio maggiore e il marito sono morti, uno scomparso in una delle prigioni segrete di Assad, l’altro ucciso dai bombardamenti dei lealisti su Homs.

La paura la fece scappare in Libano. Doveva proteggere i figli rimasti e ricongiungersi al fratello.

Seduta su una panchina della parrocchia di Albizzate, Fatima adesso guarda il campo di calcetto. Ghaith rincorre il pallone insieme ad altri bambini. Italiani o siriani fa poca importanza, in quel rettangolo verde è il pallone a dettare le regole, il resto è la delusione per un goal mancato o la felicità per una magia alla Neymar.

Accanto a lei c’è Hussain. Gli ultimi anni, tra la guerra civile e la fuga in Libano, per il 18enne sono stati dominati dalla parola “paura”. Nel campo di Rekhanye ci trovammo di fronte ad un ragazzo triste e terrorizzato dai ricordi del passato. Adesso sorride.

Sorride invitandoci a mangiare altro pollo, sorride mentre si sforza ad usare il poco italiano imparato durante queste due settimane, sorride mentre Paola ci racconta della sua volontà di iscriversi ad una scuola professionale.

Lontani dai fantasmi, nella serenità di una nuova casa, si può ricominciare a sorridere. Il futuro di Hussain in Libano era un lavoro squalificante, con il costante rischio di essere arrestato per il suo stato di clandestino. La casa di Hussain a Rekhanye era un buco di tre metri quadrati, tenuto pulito dalle premure della sorellina Aya.

Normalità ritrovata, anche i dettagli fanno la differenza, “quando Ghaith ha visto per la prima volta il letto non credeva fosse suo”, mi racconta Paola, descrivendo le prime ore in Italia della famiglia siriana.

Ricominciare ad Albizzate, seppur doloroso, ha dato a Fatima e ai suoi tre figli la possibilità di scegliere. Se fosse rimasta in Libano Aya avrebbe conosciuto un destino molto diverso. Costretta dal contesto, la ragazzina avrebbe cercato la via delle nozze per trovare protezione contro le violenze e le prevaricazioni che quotidianamente devono affrontare le donne siriane in fuga dalla guerra.

Il circolo vizioso si sarebbe alimentato con un nuovo nome: la maggior parte dei soprusi, violenze psicologiche e fisiche, avviene all’interno del contesto matrimoniale. Senza diritti e senza possibilità di scelta, il futuro delle Aya di tutto il mondo rimane un intollerabile silenzio.

Fortunatamente esistono ancora persone che combattono per l’essere umano. Un essere umano al centro dei progetti della Comunità di Sant’Egidio e della Federazione delle Chiese Evangeliche.

Grazie al loro intervento famiglie come quella di Fatima hanno potuto ottenere un visto per l’Italia, allontanandosi dalla disperazione della guerra e ricostruendo un incipit di speranza. Nella sicurezza di un aereo si arriva a Roma. Accolti da volontari e amici si sfidano le rigide regole del confine e del muro per creare un senso comunitario che va oltre al passaporto.

I corridoi umanitari sono un ponte, una mano tesa in aiuto ai bisogni umani dell’altro.

E mentre la politica si interroga sulla capacità, o la volontà, di integrare persone in fuga dalla disperazione, i bambini giocano. Ghaith si tuffa per sventare un tiro, Aya è nel campo di basket con le altre bambine: l’uso della nuova lingua arriverà, adesso basta e avanza la voglia di divertirsi, di essere bambini fino in fondo.