Il governo Netanyahu sta portando il paese verso il baratro, sulla pelle dei palestinesi, ma distruggendo una società che crede di vincere
di Christian Elia
E’ tempo di mobilitarsi. Tutti coloro che hanno a cuore Israele, senza perdere un minuto, devono mettersi assieme per salvare quel che resta di una società che sta perdendo definitivamente se stessa. I sintomi della malattia, da tempo, sono evidenti. Basterebbero sessant’anni di occupazione per avvelenare l’anima. Il rischio, adesso, è però quello di perderla definitivamente.
C’è chi si stupirà, chi affermerà rabbioso che è ormai troppo tardi, ma non è ancora perduta l’idea di un futuro civile e umano.
Gli ultimi fatti, uno dopo l’altro, denunciano che la società israeliana sta procedendo alla sua disumanizzazione. Una forma di eutanasia socio – culturale, ostentata nella sua durezza, vorace nella sua aggressività.
Gli ultimi mesi segnalano un deteriorarsi frenetico degli standard di umanità, del rispetto della comunità internazionale, dell’idea dell’altro. Un fenomeno che, da più parti, viene legato anche al progressivo disgiungersi della comunità internazionale dall’occupazione israeliana della Palestina.
Questo è vero, ed è molto grave. Ma non è tutto. Perché, anche se in molti lo dimenticano, Israele è stato capace di produrre l’occupazione e PeaceNow, il muro e B’Tselem, le colonie come mille altri attori politici e culturali contrari all’occupazione.
Questa dinamica, questo confronto, riusciva comunque – al netto dell’occupazione – a creare un dibattito nella società israeliana, una tensione, tra la militarizzazione e l’evoluzione diplomatica del conflitto. Qui siamo oltre. Siamo alla disumanizzazione definitiva dei palestinesi, siamo alla normalizzazione dell’illegalità.
E’ come se il premier Netanyahu stesse guidando, sempre più veloce, verso un muro. Come se si chiedesse quando e se qualcuno dei passeggeri gli urlerà di fermarsi, gli chiederà se ha perso la testa, se vuole schiantarsi.
Ed è come se ogni giorno constatasse che nessuno dei passeggeri ci bada più. Guardano tutti fuori, come ubriachi, senza rendersi conto che è la loro di umanità che scorre via sfocata fuori dai finestrini.
Prima c’è stato il ‘piano case’, il 6 febbraio scorso, che ha legalizzato 4mila alloggi in Cisgiordania. Sessanta voti favorevoli, 54 contrari. Ma non sono bastati. Un atto criminale, che viola il diritto internazionale in un modo nuovo. Perché sono decenni che i governi israeliani violano il diritto internazionale, ma non si conosce la questione se non si nota la differenza, la sottile linea rossa varcata senza voltarsi indietro.
Bisogna saper distinguere, per capire quanto una situazione possa degenerare. Dubbi sulla legalità di alcune disposizioni previste nella nuova legge sono stati sollevati dallo stesso procuratore generale di Stato, Avichai Mandelblit, che si è detto non certo di poterla difendere nel caso fosse impugnata nei tribunali.
La reazione del governo: il ministro della Giustizia Ayelet Shaked ha affermato che, se necessario, lo Stato troverà un altro procuratore in grado di reggere il confronto. Linee rosse, caduta di ogni freno inibitorio.
E poi il caso Elor Azoria. Condannato a soli diciotto mesi di carcere per aver massacrato il 24 marzo 2016 Abdel Fatah Sharif, ormai inerme a terra dopo aver tentato di accoltellare un soldato a Hebron.
Abdel è disarmato, ferito, a terra. Un colono urla: “Questo cane è ancora vivo!”, il soldato Elor gli svuota un caricatore in testa. Come un cane, appunto. Ma fosse stato un cane, qualche associazione animalista sarebbe insorta.
Invece no. Sono insorti i soliti, sempre meno e sempre più deboli. L’opinione pubblica ha sostenuto Elor con ogni mezzo, e la condanna irrisoria è da ascriversi solo al senso della decenza del tribunale militare. Ma quale decenza? Quale futuro c’è in una società che permette di far passare il messaggio che questa barbarie sia degno di uno stato civile?
Non basta, anche se non c’è paragone di gravità. Ma quello che viene chiamato il Muezzin Bill, il decreto che obbligherà a tenere bassa la voce al muezzin che chiama i fedeli islamici alla preghiera, è oltre il senso del ridicolo. E’ aggressione culturale, è violenza simbolica. Devi abbassare la testa, devi sparire.
Per finire con la criminalizzazione – in senso letterale – del boicottaggio. La campagna BDS (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni), lanciata dalla società civile palestinese nel 2005, e sposata da migliaia di realtà internazionali e da singoli cittadini, è un reato.
Secondo il parlamento israeliano, è lecito vietare visti di ingresso o permessi di residenza nel paese a cittadini stranieri che abbiano invocato “il boicottaggio economico, culturale o accademico” contro l’occupazione. Come il Sudafrica dell’apartheid.
Netanyahu, che come ha riferito il quotidiano Haaretz nei giorni scorsi, ha rifiutato un piano di pace durante un vertice segreto in Giordania un anno fa, non vuole rallentare. Ha preferito l’ultradestra per continuare a governare, ha preferito aspettare l’amministrazione Trump, che si annuncia molto più vicina di quella Obama.
Hamas, in difficoltà, ha posto sul tavolo un’apertura storica: il riconoscimento d’Israele.
Netanyahu, come tutti i leader che non sanno guardare al futuro, ha scelto di arroccarsi alla posizione di forza che la situazione sul terreno e quella internazionale gli concedono al momento. Senza rispondere a nessuno, senza pensare al futuro degli israeliani.
Netanyahu è stato un mediocre soldato. E ha sempre sofferto il carisma del fratello, eroe di guerra, morto durante la liberazione degli ostaggi a Entebbe, nel 1976. Nella politica israeliana, che è così legata a doppio filo ai generali, quasi sempre chi ostentava una carriera militare scintillante era pronto anche a confrontarsi, chi non l’aveva, mostrava i muscoli. Che non portano a nulla.
Questa folle corsa va fermata. Da chi ama Israele, prima ancora che da chi sostiene i diritti dei palestinesi. Meglio ancora, va fermata dai cittadini israeliani, prima ancora che dalla comunità internazionale. Israele sta perdendo e non se ne accorge nemmeno più.