Un commento a venticinque anni dall’inizio della guerra in Bosnia Erzegovina: la situazione attuale e cosa andrebbe fatto per il bene del paese
di Cristophe Solioz e Wolfgang Petritsch, tratto da Osservatorio Balcani Caucaso, originariamente tratto da OpenDemocracy
Venticinque anni dopo lo scoppio della guerra in Bosnia, è il momento giusto per porre fine al cupo periodo post-bellico. Nonostante alcuni modesti risultati, la generale situazione del paese è deprimente. Niente di nuovo, ma nel frattempo il contesto regionale ed internazionale sono cambiati considerevolmente. Di conseguenza, la situazione in Bosnia richiede una rivalutazione.
A livello regionale, lo stato della Croazia come membro dell’UE non ha migliorato la stabilità della Bosnia e tanto meno la sua integrazione. Dopo decenni di interventi internazionali e strategie anemiche che avrebbero dovuto migliorare la cooperazione regionale, i risultati non sono attendibili e l’integrità di alcuni stati balcanici (Bosnia, Macedonia e Kosovo) non è da dare per scontata.
Mentre l’influenza della Russia e della Turchia aumenta, gli strumenti di soft power sembrano essersi drammaticamente indeboliti. In modo ancora più preoccupante, la generale situazione della sicurezza in Europa centrale ed orientale è in pericolo e il nostro ventunesimo secolo è segnato da una somiglianza paurosa con alcuni degli aspetti caratterizzanti gli anni ‘30. A coronare il tutto, esperti e leader politici di vario credo politico sembrano disorientati e incapaci ad agire.
Questo non è il migliore dei mondi possibile per risolvere i problemi della Bosnia.
Sin dal Summit Europeo di Salonicco del 2003 – in cui venne fatta la promessa di portare i paesi dei Balcani nell’Unione Europea – l’UE si è dimostrata incapace di mantenere la propria parola. La sola, disastrosa strategia dell’UE è stata quella di mantenere lo status quo. Per quanto riguarda la Bosnia, l’UE ha una responsabilità obbligata. Due questioni chiave sono in gioco.
Per primo, gli Accordi di Dayton, qualunque fosse il senso che questi avessero nel 1995, ora ostruiscono completamente le sorti del paese. Attori locali, regionali e internazionali sono responsabili per quelle che sono ora delle inevitabili riforme politiche. E’ quindi necessario riaprire il vaso di Pandora per poter recuperare qualcosa che giace sul suo fondo: altro non è che la speranza – e la fine della favoletta delle due ‘entità’. Nessuno dovrebbe aver paura di un secondo processo di Dayton.
Secondariamente, nei secoli, la Bosnia ha dato prova della sua stabilità solo quando governata da entità “ombrello”: l’impero Ottomano, l’impero Austro-Ungarico e i vari stati jugoslavi. Oggi, solo l’UE può offrire una simile struttura politica. Per questo, il processo europeo di integrazione della Bosnia è essenziale – una partnership è così una priorità da definirsi come primo obiettivo nel breve termine.
Nonostante ciò, rimane cruciale un processo politico ancorato nel locale.
Nel 1992, nella sua Lettera ai suoi amici di Sarajevo, Bogdan Bogdanović sottolineava: la difesa della città è il solo esempio morale per il futuro. Il famoso ‘Spirito di Sarajevo’ consiste in qualcosa di forte, difficilmente distruttibile: l’essenza della città. Come Bogdanović scrisse: “Tutti portiamo ancora oggi l’eterna città dentro di noi, se non altro perché non conosciamo altri modi per organizzare il mondo attorno a noi”.
Tuttavia, né Bogdanović né noi stessi che stiamo ora scrivendo, abbiamo mai pensato che questa essenza sarebbe caduta dal cielo: dobbiamo dare vita a una nuova città rimodellata sulla base di quella del passato. L’interazione dinamica e a volte drammatica tra essenza e sorte di una città fornisce la chiave per un sano processo di reintegrazione nazionale.
Sarajevo, come le altre città della Bosnia, Mostar, Tuzla, Banja Luka, Brčko e Bihać, potrebbero meglio formare il cuore di un nuovo framework regionale – un’idea ripetutamente formulata da intellettuali locali – molto più in linea con il passato della Bosnia e adattato alle sfide presenti e future.
La nuova generazione non deve abbandonare questo terreno di battaglia. Questa lotta deve essere combattuta nel paese e per il paese, allo stesso modo di quella precedente. La Primavera Bosniaca del 2014 è sfumata, ma nonostante questo ha gettato i semi della speranza. Il principio della speranza, superiore sia alla paura che alla disillusione, deve ora prosperare. L’eccezionale scena artistica bosniaca ha qui un ruolo significativo da giocare. L’arte, in grado di portare la verità più vicina a noi, dovrebbe diventare l’ambito da cui ripartire nei tempi più difficili.
Wolfgang Petritsch, ex-Alto Rappresentante della Bosnia Erzegovina, è ora Schumpeter Fellow presso l’Università di Harvard
Christophe Solioz è ex-presidente della Swiss Helsinki Citizen’s Assembly (fino al 1997), promotore della Association of Bosnia and Herzegovina 2005 (2003-2005) e fondatore e segretario Generale del Centre for European Integration Strategies (2005-2014), Christophe Solioz ha scritto per Libération, Le Monde, Oslobodjenje, Der Standards, Die Presse, Le Temps, Le Courrier des Pays de l’Est, SEER, Südosteuropa Mitteilungen. E’ stato autore di: L’après-guerre dans les Balkans (Paris:Karthala, 2003), Turning Points in Post-War Bosnia (Baden-Baden: Nomos, 2005; Seconda edizione 2007) e Retour aux Balkans. Essais d’engagement 1922-2010 (Paris: L’Harmattan, 2010). Al momento, autore e commentatore politico, professore di filosofia e letteratura tedesca presso il Collège de Genève, Solioz è anche co-direttore assieme a Wolfgang Petritsch della serie Southeast European Integration Perspectives della casa editrice Nomos. Homepage: www.christophesolioz.ch