A Medellin tra gli habitantes de calle

Sono circa 6mila, sopravvivono facendo piccoli lavoretti e quasi tutti hanno problemi di droga. Cosa significa essere senza dimora a Medellin, capitale mondiale del narcotraffico e della violenza

di Alice Facchini, da Medellin

Senza dimora per colpa della violenza o della disuguaglianza. Sono queste le cause principali che portano migliaia di persone a vivere in strada a Medellin, città colombiana tristemente famosa per essere una delle più pericolose al mondo, dove il problema del narcotraffico si incrocia con il conflitto armato tra lo stato e i guerriglieri in un contesto esplosivo.

Per più di trent’anni il livello di violenza è stato al di sopra della media nazionale, dai primi anni ’80 fino a pochissimi anni fa, e tra le conseguenze c’è stato l’aumento del numero degli habitantes de la calle come si chiamano qui, ossia dei senza dimora.

C’è chi dice che in Sud America i senza casa non esistono, che tutti hanno la possibilità di avere un tetto sopra la testa, fosse pure di una baracca. Invece non è così. Camminando per le strade di Medellin si vedono spesso questi scheletri di pelle scura, sporchi nei loro vestiti strappati, che dormono con la faccia premuta sul marciapiede o che si aggirano cercando plastica o cartone dai bidoni della spazzatura per poi rivenderlo.

“Le persone che vivono in strada oggi sono circa 6.000, di cui 800 maggiori di 60 anni” spiega Lucas Arias Velez, responsabile del progetto per senza casa dell’assessorato all’Inclusione sociale del Comune di Medellin. “In più ci sono circa 500 minorenni, che vengono ospitati in strutture apposite del Comune o che vivono in hotel”.

A loro bisogna aggiungere anche tutta quella fascia di popolazione che ancora non è propriamente senza dimora ma che rischia di diventarlo: “Si tratta di persone che passano molto tempo in strada cercando di guadagnare attraverso piccoli lavoretti, come pulire le scarpe o vendere braccialettini o caramelle – continua Velez –.

Purtroppo il passo dall’economia informale alla microcriminalità è breve, e in questo la droga ha sempre un ruolo: c’è chi inizia a consumarla e chi a venderla, per poter sopravvivere o guadagnare di più. E così entra in una spirale che porta a finire in strada”.

Jaime, 39 anni, ha vissuto un’esperienza simile: “Sono di Medellin ma ho viaggiato molto. Sono stato in Cile, in Argentina, in Brasile… tutto per fare gli affari sporchi in cui mi ero infilato. Vengo da un quartiere povero e già a 12 anni ho iniziato a frequentare i ‘delinquenti della strada’, come li chiama mia madre. Mi credevo forte, avevo soldi e pensavo di poter comandare il mio quartiere. Nel ‘93 sono entrato a far parte del gruppo di Escobar, per questo dovevo viaggiare così tanto, ci spostavamo sempre attraverso la selva. Nel frattempo ho iniziato a drogarmi, prima marijuana, poi metanfetamine, alcol… “

Jaime indossa una vecchia maglia della nazionale argentina e parla guardando per terra, senza mai sollevare gli occhi. “Nel 2007 mi hanno arrestato e sono finito in carcere, ci sono rimasto 8 anni. Lì dentro si poteva trovare di tutto, droga, prostitute, bastava pagare. Anche in carcere c’era molta violenza, nel cortile eravamo in contatto con i guerriglieri delle Farc e spesso c’erano risse. Quando sono uscito mi sono subito rivolto agli operatori che mi stanno aiutando”.

Oggi Jaime vive in un Centro Dia, ossia un centro di assistenza basica per senza dimora aperto sia di notte che di giorno. In tutto ce ne sono 3 a Medellin, per un totale di 1.200 posti.

“Adesso sto quasi sempre dentro il Centro e cerco di non uscire, voglio disintossicarmi. In più dormire in strada è pericolosissimo, ci sono sempre risse che possono finire in accoltellamenti e bisogna stare all’erta. Si dice che in strada chi dorme ha sempre un occhio aperto e uno chiuso”.

Entrati nel Centro Dia si ha l’impressione di essere ancora all’esterno: si tratta di uno spiazzo all’aperto, circondato da strutture in muratura con le docce, la mensa, gli uffici degli operatori e degli psicologi. “Il centro è fatto così perché gli habitantes de calle non amano sentirsi costretti in uno spazio chiuso” spiega Giovanny Florez, uno degli operatori. In uno spiazzo sotto la tettoia sono posizionati i tavoli per mangiare. “Di sera al posto dei tavoli si mettono i materassi – continua Florez –. Le persone non vogliono dormire in una stanza chiusa e preferiscono stare sul pavimento, ci sono talmente abituati che dicono di stare più comodi”.

Luz, 58 anni, di Medellin, è anche lei in strada per colpa della droga: “A 16 anni ho iniziato a fumare marijuana, poi sono passata alla cocaina. Quando mi sono sposata mi sono trasferita a Bogotà, ma poi mi sono separata e sono tornata a casa. In quel momento ho iniziato a farmi pesantemente, fumavo crack, mi sono rovinata del tutto e così mia mamma mi ha mandato via. Sono finita in strada e ci sono rimasta per anni. Poi, cinque anni fa, mi sono guardata allo specchio e ho visto tutte queste rughe, ho capito che stavo diventando vecchia ed ero ancora lì a farmi. Non potevo più continuare così, non volevo morire in quel modo. Allora mi sono rivolta al Centro Dia e piano piano mi sono disintossicata”.

È da 4 anni che Luz è seguita dagli operatori del Comune e al momento vive nel Centro per necessità speciali, specifico per persone con problemi fisici o mentali. La sua camera ospita a mala pena un letto a castello e appese alla sua parete ci sono alcune fotografie e fotocopie di copertine di giornale. “Questa è mia figlia –racconta orgogliosa indicando l’immagine di una modella in una rivista –. È stata miss Antiochia. Di figli in tutto ne ho 4, di cui due gemelli nati mentre vivevo in strada. E poi ho anche due bellissimi nipoti”.

A Medellin il problema della droga è ancora molto forte e più del 90% della popolazione senza dimora è tossicodipendente. Le sostanze più comuni sono la marijuana, il crack, la cocaina e le metanfetamine e il prezzo è bassissimo: una dose di marijuana più costare fino a 500 pesos (15 centesimi di euro).

“Medellin è la città con più consumo di droga di tutta la Colombia – spiega Velez –, anche perché il consumo nello spazio pubblico è tollerato. Dagli anni ‘80 e ‘90 le cose sono cambiate: prima la droga colombiana era destinata all’esportazione, mentre oggi è venduta anche all’interno del Paese”.

Oltre alla droga, le altre cause che portano le persone a finire in strada sono “la disoccupazione, l’indigenza, la mancanza di opportunità – afferma Velez –. Ma anche la disabilità fisica o mentale: nelle famiglie povere è molto difficile badare a un figlio nato disabile, che necessita di più tempo, cure e risorse economiche. I genitori non possono permettersi di stare in casa con lui, così vanno al lavoro e capita che il ragazzo esca e non torni più, e che la famiglia lasci che se ne vada”.

Molti minorenni poi finiscono in strada per colpa della violenza domestica. “Il classico esempio è che la madre fa un figlio giovanissima e dopo qualche anno si sposa con un altro uomo – spiega Velez –. Il nuovo marito picchia il bambino perché non sopporta che non sia suo e alla fine quest’ultimo scappa”. Juliana, 27 anni, è diventata habitante de calle proprio per colpa della violenza in famiglia: “Mia mamma mi maltrattava. A sei anni ho subìto il mio primo stupro e lei, per consolarmi, mi ha dato una bella dose di botte e ha completato l’opera. Era così arrabbiata che mi ha buttato in mezzo alla strada mentre passava una macchina, cercando di farmi investire. Non me lo potrò dimenticare mai, questa scena mi rimarrà per sempre qui e qui” e si indica la testa e il cuore.

“A 7 anni me ne sono andata e ho iniziato a vivere per strada – continua Juliana –. Stavo in un quartiere ricco della città e contemporaneamente facevo qualche lavoretto: pulivo le scarpe, badavo alle auto parcheggiate, vendevo caramelle ai semafori… Un giorno mi sono sentita male e ho iniziato a soffrire di convulsioni. A volte mi venivano delle crisi e crollavo in mezzo alla strada. Il brutto è che la gente, anziché aiutarmi, mi derubava e mi lasciava lì. Il primo figlio l’ho fatto quando avevo 12 anni, con un ragazzo che ora non c’è più, me l’hanno ammazzato. E poi ho avuto altri 5 figli, tutti molto vicino nel tempo. Purtroppo due di loro sono morti molto piccoli”.

Juliana oggi vive nel Centro Dia, dove segue una cura specifica: “Gli operatori del centro sono come la mia famiglia. Per controllare la mia salute mi hanno fatto fare alcune TAC ma non hanno trovato niente di buono. A volte mi sento molto depressa, è come se tutti i traumi che ho subito si accavallassero nella testa e allora mi aggravo”. Quando le chiedo cosa sogna per il futuro, mi risponde: “Mi piacerebbe ricominciare a studiare. E poi sposarmi. Quello sarebbe il regalo più grande. Il mio sogno è di indossare un bel vestito bianco al matrimonio”.

Tra le cause che portano le persone a finire in strada c’è poi il desplazamiento interno: in alcuni quartieri di Medellin, soprattutto nella parte nord della città, le bande criminali controllano il territorio e chiedono ai negozianti quello che a noi italiani potrebbe sembrare una specie di pizzo. “Se qualcuno non paga o fa qualcosa di sbagliato, viene ‘esiliato’ dal quartiere e non può più entrarci – racconta Velez –. Ecco allora che si sposta verso il centro della città, dove però non ha un posto dove stare e così finisce in strada”.

Anche le statistiche riguardo l’età media dei senza dimora di Medellin dicono molto riguardo la violenza che ha colpito la città tra la fine degli anni ’80 e i primi ‘90: “La maggioranza dei senzatetto hanno tra 25 e 35 anni o tra 45 e 55 – continua Velez –. Molto meno numerosa è la fascia tra 35 e 45 anni. Questo andamento rispecchia una tendenza generale nella piramide demografica della città, che presenta un vero e proprio buco nella generazione nata tra il 1970 e il 1980 circa, decimata dal conflitto armato e dallo scontro tra bande criminali e di narcotrafficanti negli anni in cui operava Pablo Escobar”.

Il 60 percento dei senza dimora sono di Medellin, mentre il restante 40% sono per lo più colombiani.

“Di stranieri ce ne sono molto pochi – spiega Velez –, alcuni sono africani che sbarcano sulle coste brasiliane e poi arrivano in Colombia attraversando il Perù. Qui si fermano poco, il loro obiettivo è attraversare il confine con Panama e da lì proseguire il viaggio verso nord. E poi ci sono alcuni hippies che vengono dal Brasile e dall’Argentina, che sopravvivono vendendo bigiotteria o facendo spettacoli di giocoleria”.

Il programma per habitantes de la calle del Comune di Medellin mette a disposizione 4 tipi di servizi: l’unità di strada, i centri di assistenza basica, i centri per chi ha una disabilità cronica e i percorsi di risocializzazione.

“La risocializzazione è molto diversa dalla riabilitazione, che è specifica per chi è tossicodipendente – racconta Lucas Arias Velez –. L’obiettivo è far sì che la persona si riappropri gradualmente della propria vita: ricomincia gli studi, va dallo psicologo per risolvere i traumi, riprende pian piano a lavorare. Noi non siamo per un modello a zero consumo di sostanze, bensì per una diminuzione graduale. Quello che cerchiamo di fare è riempire di contenuti una persona, ossia offrirle una gamma di attività e opportunità come alternativa alla strada e alla droga”.

Purtroppo solo il 30 percento delle persone che entrano in questo percorso riescono a concluderlo, gli altri non ce la fanno e ritornano in strada. Nel 2016, delle 500 persone avevano iniziato il programma solo 120 sono arrivate in fondo.

“A Medellin i servizi ci sono, ma molto spesso non vengono utilizzati abbastanza. Molti senza dimora non vogliono avvicinarsi ai nostri centri, l’unico loro desiderio è continuare a stare in strada facendo uso di sostanze. Si sentono liberi. Il nostro compito è riuscire a intercettarli e a fargli capire che hanno un’alternativa. Spetterà poi a loro prendere la decisione finale”.