Per un figlio

Un film italo-srilankese che racconta la fatica di una donna che ha lasciato tutto per diventare badante in Italia, facendo immensi sacrifici per un figlio sempre più distante da lei

Di Marta Bellingreri

Quando a metà gennaio Antonio Augugliaro, regista di Io sto con la sposa, mi ha chiamato per chiedermi un parere sul trailer di Per un Figlio, mi trovavo per puro caso a Mazara del Vallo, in provincia di Trapani. Nelle vie strette della Casbah mazarese, pensai: quale migliore luogo per vedere il trailer di un regista italiano-srilankese? Così tra le chiacchere con giovanissimi tunisini-mazaresi, e un uomo di origine slava, ma cresciuto e vissuto tutta la vita a Mazara, mi azzardai a fare vedere il trailer del film di Suranga Katugampala e la reazione spontanea fu: “Quando lo fanno al cinema? Voglio sapere come va a finire. Questo noi lo abbiamo vissuto!”

Ed in effetti, l’idea di Antonio e Suranga era proprio quella: portare nei cinema questo film fatto da una troupe mista di italiani e srilankesi, un film speciale che parla di generazioni, di partenze, di fatica, di cura. Per rendersi conto di come ci siano riusciti alla grande, basta guardare la lista delle proiezioni in tutta Italia, in un tour ancora in corso. Del film però ne avevo già sentito parlare, non solo per la risonanza alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro dove ha avuto la menzione speciale della giuria, ma soprattutto grazie alla mia amica Livia Alga che a Verona per un mese aveva ospitato la troupe srilankese e che ci regala quell’atmosfera, tra curcuma, telecamere e condivisione, nel bellissimo diario di bordo del film.

Mi mancava solo vederlo! Con Gina Bruno, che insieme ad Antonio, sta distribuendo l’esordio di Suranga con Gina Films, lo avevamo detto: “Forse, è il primo film in Italia sulle badanti e dato che non ci piace il termine badanti, diciamolo, è un film sulla cura. La cura che abbiamo delegato e la cura che porta fatica, amore, tempo, dolore.” La cura per cui sembra che non troviamo nessuna gratificazione, ma che è percepita, anche distrattamente e silenziosamente, da un adolescente che preferisce lo smartphone allo scambiare due parole con la madre.

La madre, Sunita, è protagonista con la sua monotona vita tra lavoro e casa, di storie multiple: la storia di chi lascia il proprio paese in cui era in corso una guerra civile per cercare un lavoro fuori, lasciando anche i figli lontani; la storia di chi si prende cura di un’anziana signora al posto dei figli che non la vanno neanche a trovare; la storia del conflitto tra una genitrice e un figlio adolescente; le storie dei riti, delle culture, delle difficoltà economiche, la storie e le storie di essere straniere in Italia; le storie di donne che non hanno potuto allattare e le storie di adolescenti che cercano diverse forme di amore.

Ad un certo punto Sunita dice al figlio, prima in cingalese e poi in italiano: Parlami. Un tentativo di entrare anche linguisticamente nella vita del figlio che ignora la sua fatica e cura, che capisce il cingalese della madre ma quotidianamente è immerso nel dialetto veneto dei suoi coetanei. Perfino io rimango stupita, non tanto ovviamente dal non capire il cingalese, quanto da afferrare a malapena il veneto; e riconosciamo invece quell’italiano parlato da una straniera che fa di tutto per capire e farsi capire al telefono dal suo datore di lavoro. Che poi, il datore di lavoro, non è altro che il figlio della signora anziana da cui Sunita passa le intere giornate.

Il film per me non è il ritratto solo di un rapporto madre-figlio; c’è questa signora anziana di cui Sunita si prende cura che chiede tutto l’amore, l’attenzione e le chiede continuamente di non lasciarla sola, di farle compagnia.

Rabbrividisco al pensiero che migliaia di donne partite da lontano, spesso proprio fuggendo dalla guerra, siano oggi il punto di riferimento di donne italiane che hanno attraversato quasi un secolo, con le sue atroci guerre. E che di questo non ci rendiamo conto.

Arriva un film per dircelo. Arriva Per un Figlio perché, come dice Suranga nell’intervista per Internazionale, una generazione intera che chiamiamo “prima generazione” rispetto a una seconda di figli di immigrati che si sentono italiani, è partita per i figli. E arriva anche per dirci dunque di non dimenticare le Madri che nella loro fatica quotidiana attraversano e provano a conversare con tutte le generazioni. Per un figlio è forse soprattutto per le Madri.