Porto il velo, adoro i Queen (e non solo)

Intervista a Sumaya Abdel Qader sul film Porto il velo, adoro i Queen (e non solo).

di Gabriella Grasso

Alla proiezione milanese del documentario Porto il velo, adoro i Queen il 22 marzo, i biglietti sono andati rapidamente sold out, tanto che è stata subito programmata un’altra serata per il 6 aprile. Ora, il film continua a girare l’Italia (qui il calendario), proponendo al pubblico una realtà poco conosciuta, rappresentata da donne musulmane velate sì, ma attive socialmente e professionalmente. Sono tre le protagoniste scelte dalla regista Luisa Porrino: Sumaya Abdel Qader, che nel 2008 scrisse un libro dal titolo, appunto, Porto il velo, adoro i Queen (uscito per Sonzogno), in cui raccontava la vita, i pensieri e le emozioni di una italiana musulmana velata; la psichiatra Batul Hanife e la fumettista Takoua Ben Mohamed. La telecamera le segue, le interroga, indaga la loro vita che, man mano che i minuti di proiezione passano, appare sempre più normale: una normalità che per molti, però, si rivela sorprendente.
Era da tempo che volevo confrontarmi con Sumaya Abdel Qader, nata a Perugia da genitori di origine palestinese, che da quando è diventata consigliera comunale per il Pd a Milano ha un’agenda inespugnabile: così ho prontamente approfittato dell’uscita di questo film per riuscire a incontrarla e parlare con lei di velo, donne, femminismo e altro ancora.

Innanzitutto, sei soddisfatta del documentario?
«Sì, anche se non è la trasposizione del mio libro, ma ne omaggia il titolo. Bisogna però tenere conto che è stato girato 5 anni fa e tutto è cambiato da allora, anche io. Infatti non sono del tutto soddisfatta di quello che ho detto in alcuni passaggi, perché su certi temi allora ero molto meno stimolata e non mi ponevo domande. Il velo, per esempio, non era un tema di grande interesse: ora invece se ne parla – e ne parlo – continuamente».

Che reazioni ti pare che abbia suscitato nel pubblico?
«Molto diverse. Forse chi ha dimestichezza con certi temi lo ha giudicato semplicemente interessante, nulla di più; chi non li conosce lo ha trovato molto stimolante. E l’obiettivo della regista era soprattutto parlare a quelle persone che della comunità islamica non sanno nulla e che si sbalordiscono nel vedere donne velate affermate sul lavoro, che sanno argomentare le proprie opinioni e viaggiano. Per loro è stato sconvolgente, ha creato un corto circuito nell’immaginario. E pensa che quando Luisa Porrino presentò il progetto ad alcune istituzioni, le dissero che delle musulmane non interessava niente a nessuno. E che comunque le tre protagoniste non erano rappresentative della loro comunità».

In effetti non tutte le musulmane italiane sono come voi…
«Posto che non si possono rappresentare tutti, nel film si è scelto volutamente di ritrarre donne attive e consapevoli, che indossano il velo, sono credenti ma non in crisi perché hanno fatto un loro percorso. Continuando a proporre sempre e solo storie di musulmane in crisi o sottomesse ai mariti, si fornisce un’informazione parziale. Questo film è il primo tentativo di aggiungere un altro pezzetto alle tante parziali informazioni, a volte fuorvianti, che circolano».

Dopo la proiezione milanese hai raccontato che la tua scelta di mettere il velo fu inizialmente dettata dal desiderio di “essere come le altre”, ma poi qualcosa è cambiato: ci racconti?
«Capita a tutti, specialmente da adolescenti, di fare qualcosa solo perché lo fanno gli altri. Io avevo 13 anni quando ho iniziato a portare l’hijab. Per me significava diventare grande, entrare nella comunità delle donne. I miei genitori mostrarono delle perplessità, mi chiesero se non volessi aspettare. Ma per me fu un gesto naturale. Crescendo, però, la mia consapevolezza iniziò a crescere, stimolata soprattutto dalle domande che mi venivano rivolte. Quando mi chiedevano perché lo portassi, rispondevo: “Perché si fa così”. Ma che risposta era? Con il tempo ho capito che quella scelta doveva avere un senso profondo e allora ho iniziato a ricercare, convinta che se quel senso non lo avessi trovato, il velo lo avrei tolto. Ma è andata diversamente, perché grazie al percorso di fede che ho intrapreso ho capito che portarlo significava mettermi alla prova per amore di Dio. Per i non credenti è difficile da capire: gli amici cristiani praticanti mi dicono che anche a loro capita di sentirsi accusati, quando fanno un fioretto o rispettano la quaresima, di essere retrogradi. Sicuramente c’è una comprensione maggiore tra fedeli, anche di credi diversi».

L’importanza che ha per te la religione, di cui il velo è il simbolo evidente, mi è apparsa molto chiara quando ho letto nel libro che hai iscritto le tue figlie a una scuola cattolica piuttosto che a una laica.
«Aspetta: per me il velo non è un simbolo. È un atto di fede. Il simbolo è nei vostri occhi. È per voi che simboleggia qualcosa: per me è solo un gesto d’amore e devozione nei confronti di Dio, fatto in consapevolezza e libertà. È questa differenza di sguardi che crea malintesi. Per me vietarlo perché “simboleggia” un’appartenenza religiosa e non garantisce la neutralità dello spazio pubblico non ha senso, perché per me non è un simbolo: come la mettiamo? Queste questioni, che emergono sempre più forti, vanno affrontate, altrimenti ci saranno sempre scontri e discriminazioni. Perché se mi si vieta di indossare qualcosa che per me è importante – parlo dell’hijab naturalmente, che incornicia il viso e copre i capelli – mi si fa violenza».

Io credo che l’uso del velo – così come quello del burkini – susciti così tanto dibattito perché si teme possa costituire una minaccia al percorso di emancipazione compiuto dalle donne.
«Da parte di un certo tipo di femministe c’è l’arroganza di voler imporre la propria visione del mondo come se fosse l’unica. Non possono esistere altri modi legittimi di vedere se stesse?».

Diresti che esiste un femminismo musulmano?
«Non userei la stessa parola, perché il femminismo è figlio di un percorso storico e culturale tipico dell’Occidente. In altre parti del mondo la storia si è evoluta diversamente. Innanzitutto quello che per noi musulmane è il senso di essere donne, di vivere la nostra libertà e la fede, è frutto di un percorso che non ha visto lo stesso scontro con la religione che c’è stato qui. L’islam si è relazionato in modo diverso con lo stato. Storicamente ci sono stati re e califfi che non hanno dato alcun peso alla religione; altri che invece hanno portato gli imam a corte e, in alcuni casi, hanno persino imposto la visione di una scuola giuridica islamica sulle altre. Ma di per sé l’islam non ha avuto uguali precedenti di conflitto su temi come la libertà della donna, la scienza, lo sviluppo tecnologico. Oggi viviamo un’eccezione storica con Al Qaeda, Daesh etc».

Visto che di questo stiamo parlando: spiegami cosa vuol dire che non è mai stato e non è in conflitto con la libertà della donna.
«La donna è riconosciuta sin dalla nascita dell’islam come un essere indipendente, dotata di diritti e doveri al pari dell’uomo, ognuno con delle specificità che non ledono la dignità e l’autodeterminazione femminile. L’islam è normato dal corano, dai detti del profeta e dalle interpretazioni di questi. Alla fine il problema non sono i testi, ma le teste. Se le teste leggono i testi in un certo modo, la pratica cambia: per questo ci sono stati periodi illuminati e altri meno. Inoltre, spesso i musulmani introducono elementi culturali tradizionali che “viziano” la corretta pratica e comprensione dell’islam».

In occidente il movimento femminista ha lottato per cambiare il nostro ruolo nella società. È successo qualcosa di simile dentro il mondo musulmano?
«Non allo stesso modo: ma ci sono donne che già da fine Ottocento hanno iniziato a ragionare sul loro ruolo sociale, a partire dalla rilettura del Corano. I movimenti di liberazione femminile si muovono principalmente, anche se non solo, all’interno della cornice religiosa. Si tratta di un “femminismo” che per emancipare le donne e dare loro la possibilità di vivere ed esercitare la fede liberamente, cerca di riscoprire il significato originale della rivelazione, di ciò che ha voluto insegnare, fornendo una lettura diversa da quella distorta scelta da alcuni Paesi in modo funzionale al potere. Oggi sono fortissimi i movimenti di donne musulmane credenti che vogliono riappropriarsi della lettura del testo sacro, superando secoli di interpretazioni maschili».

Ti racconto un episodio personale. L’anno scorso, su una spiaggia francese, mi sono trovata accanto a una giovane donna in burkini. Una parte di me, quella più razionale e progressista, la guardava con simpatia e senza giudizio. Ma un’altra parte, più profonda, quella che si sente ferita ogni volta che qualcuno o qualcosa le rimanda un’idea di disparità tra i sessi, provava angoscia e tristezza. Pensavo: poverina, ma perché deve vergognarsi del proprio corpo e coprirlo?
«Ma noi non ci vergogniamo del nostro corpo. Si tratta di pudore e diversa sensibilità, non di vergogna».

Ok. Ma le battaglie femministe occidentali sono servite anche a mettere in discussione un’idea di pudore a senso unico che era sintomo di sopraffazione, non credi?
«Sì, ma quello è stato il vostro percorso. Noi non abbiamo bisogno di fare lo stesso, perché è quando ti senti costretta da qualcosa che provi il bisogno di emanciparti in un certo modo. Io mi sento assolutamente libera di fare le mie scelte, ma in un’altra maniera».

Non ho dubbi che tu ti senta libera: ma sei sicura che tutte le donne musulmane lo siano?
«No. Anzi, so per certo che molte non lo sono, perché vivono in contesti che sono chiusi o per motivi di interpretazione religiosa o per convenzioni sociali. Io comprendo il tuo discorso, ma dico anche: bisogna esercitare il rispetto e la tolleranza. Così come tu puoi sentire fastidio davanti a un burkini, io provo disagio a sedermi in spiaggia accanto a un’amica in mutande e reggiseno. Faccio fatica a guardarla. E così come tu puoi sentire compassione per la ragazza coperta, io della mia amica in costume potrei pensare: “Poveretta: pensa di doversi spogliarsi per sentirsi libera!”. Come vedi, si tratta di reazioni speculari. Ma quando mi capita, io cerco di superare il disagio attraverso il rispetto delle scelte altrui. Gli esseri umani sperimentano sempre dei disagi nei rapporti con gli altri: ma se tu fai rumore mentre mangi e a me dà fastidio, che faccio, ti sopprimo? No, convivo con te: fa parte delle regole del vivere civile».

Non mi pare la stessa cosa: ci sono comportamenti che non danno fastidio di per sé, ma perché rimandano a un passato al quale si teme di tornare. E se è vero che le donne musulmane e quelle occidentali vengono da percorsi diversi, esistono però valori riconosciuti universalmente, come il diritto dell’essere umano alla libertà individuale e all’autodeterminazione.
«Certo che ci sono valori universali che devono valere par tutti. Ma io sono autodeterminata e non devo passare come l’eccezione, perché non lo sono: questo è il messaggio del documentario. Dopodiché noi musulmane “autodeterminate” vediamo benissimo che all’interno della nostra comunità ci sono problemi e combattiamo per liberare le nostre sorelle: ma lo facciamo dall’interno, senza spettacolarizzazione, perché conosciamo il contesto e i suoi punti critici. E posso dire una cosa? Non abbiamo bisogno del vostro aiuto paternalista e assistenzialista. Non abbiamo bisogno della pietà delle donne occidentali (termine che andrà superato prima o poi, perché anche io sono occidentale), dei loro occhi che ci vedono come sfigate e sottomesse: perché non lo siamo. E a liberare quelle che sono vittime di certi sistemi di potere e culture ci pensiamo noi. Pensi che sia facile per me fare politica e condurre le mie battaglie? Sai che esistono pagine Facebook che mi prendono di mira perché sono considerata “eretica”? Che molte donne occidentali continuino di accusarci di essere poco emancipate perché portiamo il velo non ci è di nessuno aiuto. E invece abbiamo bisogno di sostegno per affrontare le nostre lotte. Dovremmo unirci e, insieme, sviluppare una visione più trasversale del tema della battaglia di genere. Ho letto un recente intervento di Dacia Maraini – ma in passato ce ne sono stati altri come quelli di Lorella Zanardo – nel quale la scrittrice sostiene che le donne musulmane non saranno mai davvero libere. Ma perché lo dice? E le donne occidentali, lo sono davvero? Non sono condizionate, per esempio, dalla moda, dalla dittatura del corpo perfetto? Per affermare la nostra libertà contro un mondo che ci dice come dobbiamo vestirci e comportarci dovremmo stare unite e batterci a pari livello».

All’interno della tua comunità trovi ostacoli quando parli di libertà femminile?
«Solitamente no, ma può capitare. Vanno affrontate molte criticità, come casi estremi di donne immigrate da poco, provenienti soprattutto da contesti rurali, che vengono chiuse in casa e non escono nemmeno per fare la spesa. È importante però capire la trasversalità del problema della mancata parità di genere e della violenza contro le donne. Qualche giorno fa ero con delle mamme e chiacchierando abbiamo fatto tardi. Una di loro ha iniziato ad agitarsi tantissimo perché temeva di non tornare a casa in tempo per preparare la cena per il marito. Mi sono domandata che situazione coniugale avesse quella donna per essere così terrorizzata: ed era italianissima. E poi ci sono quelle, sempre italiane, che ti raccontano che in casa non possono indossare la tuta perché il marito non vuole. Oppure le ragazzine che non si tagliano i capelli perché i fidanzati glielo impediscono. Noi donne – tutte, incluse le manager che vanno in giro tutto il giorno con il tacco 12 come se non potessero essere eleganti anche con le scarpe basse – viviamo spesso in funzione degli uomini. E non mi si dica che non è vero. Siamo tutte condizionate. Ecco, questo dobbiamo superarlo»

D’accordo: la rivoluzione sessuale non ci ha liberato del tutto, ma molti cambiamenti in termini di costume li ha ottenuti.
«Posso dirti una cosa? Io non avrei fatto la rivoluzione per portare la minigonna, ma per ottenere ruoli di maggiore responsabilità nel lavoro e nella società. Perché una volta che hai pari possibilità di governare e gestire il potere, il resto viene da sé».

Ma portare la minigonna o bruciare i reggiseni erano gesti simbolici per arrivare a tutto il resto.
«In questo sono forse condizionata dalla mia fede: noi non abbiamo simboli, andiamo dritti al contenuto. E comunque i gesti simbolici non bastano. Per questo penso sia più importante che una donna possa diventare sindaco o presidente della Repubblica, perché solo così si cambia la società».

Scusa se insisto: ma esercitare il diritto a mettere la minigonna in una società patriarcale ha avuto i suoi effetti positivi.
«Lo capisco, ma credo che non sia bastato. Io comprendo le donne musulmane che, per ribellarsi a parti della loro comunità o a Paesi che impongono un determinato stile di vita, vogliono per esempio togliere il velo. E le sostengo. Appoggio le iraniane che combattono contro l’obbligo di coprirsi. Ogni imposizione va contrastata. Se ti costringono a portarlo, il velo smette di essere un atto di fede. Solo quando nessuna sarà più costretta a velarsi, allora chi vorrà potrà scegliere liberamente di farlo. Oggi portare l’hijab è diventato persino un gesto trasgressivo: sai quante ragazze hanno deciso di farlo per protesta, dopo la recente sentenza della Corte Europea? È triste che un atto di fede venga banalizzato così».

Tu sostieni che l’Italia sia un Paese particolarmente islamofobo: secondo te non ha a che fare con il fatto che, pur essendo laico sulla carta, sia in realtà profondamente cattolico e tema il confronto con un altro credo?
«Assolutamente no. La paura dell’islam viene sovrapposta e confusa con la situazione politica internazionale. La questione non è religiosa, infatti con i credenti cristiani non esiste conflitto. Si tratta soprattutto di paure legate alla possibilità di perdere il lavoro a causa degli immigrati e alla sicurezza: timori che vengono fomentati strumentalmente. Inoltre viene sempre ripetuta, senza alcuna consapevolezza, la questione della “incompatibilità culturale”. Mi sono trovata a discutere con una persona che sosteneva: “Voi volete cambiare le nostre tradizioni, i nostri valori”. Le ho chiesto: “In che modo? Quali cambiamenti proponiamo che voi possiate percepire come pericolosi?”. Non mi ha risposto. Perché una risposta non c’è. Se i musulmani chiedono di avere le moschee o di poter acquistare carne halal, questo rientra in una modalità di vivere le proprie scelte e credenze liberamente, senza disturbare nessuno. D’altra parte ci sono migliaia di italiani – tra cui molti culturalmente preparati come giornalisti, medici, ingegneri – che si sono convertiti all’islam: e sicuramente nessuno li ha obbligati».

Dopo la proiezione del film hai definito una “intromissione della società civile” le domande che spesso gli insegnanti rivolgono alle loro alunne con il velo. Ma non credi che sia normale il desiderio da parte di un docente di indagare sul benessere dei propri alunni?
«Sì, però chiedo di fare attenzione. Tempo fa ho saputo di un ragazzino musulmano che è stato temporaneamente allontanato dalla famiglia perché aveva raccontato alla maestra che il padre lo obbligava a pregare. Ma io conosco molti figli di cattolici che piangono quando vengono portati a catechismo: qual è la differenza? Il punto è che si adottano due pesi e due misure. Concordo che bisogna stare all’erta e verificare che un allievo non porti segni di violenza fisica o psicologica. Ma quando le ragazze con l’hijab vengono stressate dagli insegnanti, che domandano loro se siano davvero libere o chiedono loro di far vedere ai compagni di classe i capelli, si tratta di un atto di violenza. È vero: non possiamo sapere se una donna che indossa l’hijab lo abbia scelto o meno. Però davanti a una non musulmana ci domandiamo se sia vittima di violenza domestica? No. Eppure conosciamo tutti i dati agghiaccianti sulla violenza contro le donne in Italia. Ciò detto, comprendo che il momento storico ci faccia sospettare più in una direzione che in un’altra: ecco perché sarebbe importante che gli insegnanti e tutti coloro che operano nel pubblico fossero formati e dotati degli strumenti per comprendere e risolvere le nuove questioni che emergono, senza cadere in discriminazioni o eccessi di intromissione».

A proposito di sguardi differenti: nel tuo libro racconti del disagio che hai provato quando, nello spogliatoio di una palestra, ti sei trovata circondata da donne che non nascondevano la loro nudità. Mi ha colpito perché io, al contrario, trovo che sia un gesto profondamente liberatorio, e una conquista, il mostrarsi alle altre senza pudore.
«È proprio questo il punto difficile: come venire incontro alla tua esigenza e alla mia? È la sfida di una società sempre più plurale: mettere tutti in condizione di vivere sereni. Io comprendo la paura di chi deve gestire la pluralità: per questo cerco sempre di ragionare e trovare nuovi punti di incontro, perché si tratta dell’unica strada percorribile».

Ultima domanda: sei soddisfatta del lavoro che stai facendo come consigliera comunale?
«Non ho ancora capito se la politica faccia davvero per me. Però credo che come amministratrice pubblica io possa contribuire a lanciare traiettorie di ragionamenti e stimolare una visione di mondo sempre più plurale. Quando in Comune si parla di moschee e di diritto al culto, ad esempio, la mia presenza fa la differenza, perché sono portatrice di un altro punto di vista. E più voci diverse ci saranno, più completa sarà la visione della società che andremo a disegnare per il futuro. Allontanandoci da Milano, penso che questo sia il momento in cui l’Europa debba mettere alla prova i propri valori di rispetto e garanzia dei diritti di tutti. Se non ci riuscirà, sarà facile che i populismi e gli estremismi abbiano la meglio».