Abitare condiviso?

Le ombre del cohousing

di Francesco Chiodelli

In Italia, quella del cohousing è quasi diventata una moda, che, ciclicamente, attraversa le pagine della stampa nazionale. L’ultimo articolo entusiasta in cui sono incappato risale a fine gennaio sul Corriere della Sera.

Per quanto i progetti di cohousing portati a termine in Italia siano ancora un numero molto limitato (probabilmente poco più di una decina), di cohousing si sente spesso parlare sui media (oltre che in dibattiti di accademici e professionisti). Un numero crescente di persone pare essere attratta dell’idea della coabitazione. E c’è anche chi, sul versante degli sviluppatori immobiliari e dei progettisti, è riuscito a fare del cohousing la propria professione.

Quella della coabitazione è infatti, in termini generali, un’idea molto attrattiva, che si nutre di immagini di convivenza felice, riscoperta delle relazione interpersonali, solidarietà tra vicini. Tuttavia, vi sono anche alcune ombre, che solitamente non vengono messe in evidenza delle descrizioni giornalistiche.

Come prima cosa, è utile fare un po’ di chiarezza su cosa si intende per cohousing. Con il termine cohousing si identifica una particolare forma di insediamento residenziale, solitamente di dimensioni ridotte (qualche decina di abitanti), che si costituisce con l’obiettivo di creare una comunità coesa, dialogica, collaborativa.

I residenti sono scelti sulla base della condivisione di valori e stili di vita comuni, creando una sorta di “vicinato elettivo” (come viene definito dagli stessi cohousers) o di comunità intenzionale. Ciò si rende necessario per garantire il funzionamento armonioso dell’insediamento, visto che i residenti partecipano a diversi momenti di vita comunitaria (ad esempio pasti comuni, operazioni di cura e manutenzione dell’insediamento, attività sociali) e usufruiscono di alcuni spazi e servizi collettivi (si possono trovare, a seconda dei casi, lavanderia comune, sala da pranzo, spazi gioco per i bambini, sala relax, orto e officina bricolage, piscina o altre attrezzature sportive).

Si noti però che, nel cohousing, la vita comune si svolge senza sacrificare la privacy individuale – non si tratta, in sostanza, di una “comune”: ogni famiglia, infatti, vive in un proprio appartamento, solitamente in proprietà, completamente autonomo dal punto di vista funzionale.

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Foto di Andrea Negro – progetto Sharing – questa è la mia casa.